Sono ormai innumerevoli i ricordi giornalistici e letterari riguardanti il centenario del congresso di Livorno del PSI, gennaio 1921, quando si sancì la separazione dei due grandi rami della sinistra storica italiana, quello socialista e quello comunista. Molto spesso, nel ricostruire letterariamente e giornalisticamente quei fatti, si accenna al dato che in quel Congresso risultò decisivo lo scontro attorno al tema del rapporto con la Rivoluzione d’Ottobre e l’adesione ai 21 punti dettati dall’Internazionale Comunista posti come condizione per l’ingresso del partito italiano in quel novero che doveva rappresentare il soggetto dirigente di una prevista rivoluzione mondiale. Oggi da diverse parti ( per esempio dal libro di Ezio Mauro “La dannazione” , all’articolo di Carmine Fotia pubblicato in questi giorni dall’Espresso) si fa rilevare come quel tipo di contesa sui 21 punti fu dominante nel corso dell’assise livornese mentre fu tenuta in disparte l’analisi sulla crisi verticale che stava vivendo in quel momento il sistema politico italiano sotto l’incombere della violenza fascista: violenza fascista che, poco più di un anno dopo, avrebbe salito le scale del potere con la formazione del governo Mussolini (in un primo tempo appoggiato da liberali e popolari). Governo Mussolini anticamera della dittatura che, attraverso l’assassinio di Matteotti, il carcere inflitto al gruppo dirigente comunista, l’esilio di Turati avrebbe completato nel giro di pochi anni la sua presa ferrea sullo Stato completandone la trasformazione in regime totalitario. Ebbene: proprio questo rilievo dell’assenza di analisi sul precipitare della situazione italiana in quel momento nonostante le intuizioni al riguardo già espresse da Antonio Gramsci e Giacomo Matteotti (tralasciando quelle avanzate da Piero Gobetti sulla sponda liberale), ci aveva spinto da tempo a denominare “Dialogo Gramsci – Matteotti” un progetto politico che non abbiamo inteso come un semplice discorso di apertura di confronto a sinistra tra gli esponenti di due tradizioni storiche ormai politicamente in via d’estinzione. Il nostro intento è quello di muoversi sulla linea di quella capacità d’analisi e di previsione richiamata proprio dalla capacità di riflessione dei due grandi protagonisti dell’antifascismo, per far sì che si superi una semplice idea di revisione “unitaria” dei nostri diversi percorsi. Lo scopo del progetto politico legato al “Dialogo Gramsci – Matteotti”, è dunque quello di fornire un contributo per arrivare, in nome di una rinnovata capacità di lettura del futuro, a costruire una nuova sinistra posta completamente in un radicalmente rinnovata dimensione progettuale. Una nuova sinistra in grado di recuperare (come è stato affermato autorevolmente proprio in questi giorni) “un campo ideologico” della sinistra fornendole capacità di riflessione, soggettività organizzativa, programma politico, identità (è il caso di affermarlo senza reticenze) di Partito. Oggi un’esigenza di questo tipo appare moltiplicata nella sua necessità e urgenza dal presentarsi a livello globale di una situazione che molto difficile da interpretare per la nostra capacità di analisi fondata sui riferimenti filosofici e di teoria politica ai quali abbiamo fatto storicamente riferimento. Se davvero vogliamo avere la capacità di inoltrarci, come si diceva un tempo, “in mare aperto” occorre prendere atto che l’ affermazione riferita al mutamento di paradigma non è retorica ma concreta. Siamo nel pieno di un processo di cambiamento che richiede uno sforzo di rielaborazione cui nessuna generazione è mai stata chiamata, a partire dalla prima rivoluzione industriale e dal sorgere del capitalismo e dall’organizzarsi della classe operaia nei sindacati e nei partiti di massa. E’ questo , della presa d’atto dell’avvenuto mutamento di paradigma, il senso di una proposta d’analisi che, collegata al Dialogo “Gramsci – Matteotti” potrebbe essere definita del “socialismo della finitudine”. Un “Socialismo della finitudine” con l’intenzione di ripartire dall’idea dell’impossibilità, rispetto a quello che abbiamo pensato per un lungo periodo di tempo,di procedere sulla linea dello sviluppo infinito inteso quale motore della storia inesorabilmente lanciato verso “le magnifiche sorti e progressive”. Un “Socialismo della finitudine” come idea che, nella sua dimensione teorica, riesca a comprendere quanto di “senso del limite” sia necessario acquisire proprio al fine di realizzare quel mutamento sociale necessario posto nel senso del passaggio dall’individualismo competitivo alle nuove forme di soggettività collettiva. Il primo punto di programma di una aggregazione politica così teoricamente impostata dovrebbe allora essere quello rappresentato dalla progettazione e da una programmazione di un gigantesco spostamento di risorse tale da modificare profondamente il meccanismo di accumulazione dominante. Una progettazione e una programmazione che non potrà essere che governata dal “pubblico”. In questi giorni sono stati evocati, sia pure impropriamente, i modelli usati al termine della seconda guerra mondiale, il Piano Beveridge e quello Marshall (due strumenti, beninteso, affatto diversi tra loro anche dal punto di vista degli obiettivi politici che attraverso di essi si intendevano perseguire). Viviamo tempi completamente diversi da allora e quegli strumenti non possono essere presi ad esempio, ma la mole complessiva dello spostamento di risorse dal privato al pubblico e l’assoluta necessità di una lotta serrata alle disuguaglianze può ben essere indicata come quantitativamente riferita a quei modelli. La lotta all’allargamento dei meccanismi di sfruttamento nella dimensione di classe è l’altro punto che va posto all’ordine del giorno: un allargamento delle logiche e delle pratiche di sfruttamento che è insieme di quantità e di qualità al punto tale da provocare una rovesciamento di alcuni dei nostri tradizionali fondamenti d’analisi. Si ravvede, inoltre, un’altra differenza fondamentale: nel periodo in cui furono lanciati il Piano Beveridge e quello Marshall il mondo si trovava nella fase di una nuova aggregazione politica attraverso l’idea delle Nazioni Unite; nel periodo , sicuramente convulso ma aperto comunque a grandi speranze, della decolonizzazione e nell’avvio della “guerra fredda”. Oggi l’emergenza sanitaria sconvolge l’assetto consolidato in un momento in cui si stava attraversando una forte difficoltà per quell’accelerazione nei meccanismi di scambio che abbiamo definito come “globalizzazione”. Il rilancio del progetto riguardante il “Dialogo Gramsci Matteotti” potrebbe avvenire su queste basi, sia pure semplicemente indicative e del tutto incomplete . Nel nome del “Dialogo” non appena possibile andrebbero chiamati tutti i soggetti politici e culturali presenti nel frammentato arcipelago della sinistra italiana a confrontarsi su idee riguardanti una realtà futura della quale non riusciamo ancora a intravedere i contorni. Una realtà futura al riguardo della quale però le opzioni di lotta allo sfruttamento, di affermazione dell’ uguaglianza, di solidarietà nella democrazia pluralista, di visione internazionalista dovranno obbligatoriamente trovare cittadinanza ed espressione sul piano di una dimensione di soggettività politica capace di adeguarsi a prospettive di un domani quanto mai incerto per tutte le generazioni.