Scrivere di Puccini per il centenario dell’eredità lasciataci è questione densa di significato. In particolare, se ci si concentra sulla sua principale dimensione di vita di comune mortale lucchese, quella di voler vivere a Torre del Lago, sulle sponde di quel lago di Massaciuccoli creato dall’uomo, con un’invenzione ecologica di grande portata, paragonabile a quella di un’opera lirica magistrale.
Mi lascerò portare da una comunicazione medianica, come se il Maestro mi parlasse: infatti mi sono calato nella realtà di Torre del Lago, da tempo ribattezzata Torre del Lago Puccini, dopo essermi appassionato alla sua opera, per capire quale era l’effetto che quel luogo aveva su di lui. L’ho fatto negli anni, nei lustri e nei decenni, conoscendo la sua epigona travagliata, Simonetta, con flânerie frequentando la sua casa museo, osservando i dintorni e lo specchio del lago, parlando, come fece Lui per 30 anni, con gli abitanti di lì. Ho scrutato da sociatra delle Arti la vita che vi scorreva ancora 30 anni fa, fatta anche di barche e di cani da caccia e di beccacce e beccaccini e fucili e canneti e palude e toschi veraci maledetti alla Malaparte e pescatori e l’onda turistica che rapsodicamente occupava la dritta via tra lago e grande litorale, al seguito di tanti programmi di festival pucciniano (oggi al settantesimo) e di coloritissimi frequentatori lgbtq+ anche ante litteram.
Tutto accadeva accanto a insediamenti d’archeologiche infrastrutture industriali ed estrattive ancora visibili, che portarono Giacomo ad andarsene e a morirne forse tre anni dopo. E, ancora dopo, ad andarsene anche al vecchio piccolo teatro Puccini, spostato per lasciare spazio all’imponente insorgenza di un moderno teatro, inaugurato nel 2008, che ricorda quelli greci di Taormina, Siracusa o Pompei ed è già esempio di ciò che il teatro dal vivo rappresenta oggi, a differenza del vigore e centralità civile dei tempi periclei delle Dionisie.
La suggestione è simile, e i 3370 posti del Gran Teatro Giacomo Puccini, pieni di vita e calore, sono ormai un elemento socio-territoriale ineludibile, un unico canto con lo specchio di Massaciuccoli, con le suggestioni macchiaiole e veriste e con il mito globale delle opere del grande maestro.
Il Gran Teatro, che oggi io dico stupendamente monumentale, è un esempio di architettura di paesaggio. Bello? Brutto? È forse bella o brutta la Tour Eiffel? È forse bella o brutta l’eiffeliana Statua della Libertà? È forse bella o brutta l’Opera House di Sydney? Solo una mente troppo semplice può cercare risposta a questa domanda… Perché, quando ci si trova di fronte a opere del genere, nella loro imponenza, che siano sullo skyline di Parigi, su quello del Mondo Nuovo o Nuovissimo, o sulle dolcezze del panorama toscano verso le Apuane, se ne deve prendere atto. C’è grandezza… E perché? Eiffel celebrava a Parigi con i suoi ferri l’epoca dell’industria figlia della rivoluzione scientifica, poi sempre lui a New York donava all’Occidente il primo simbolo della rivincita della Libertà dell’immaginario sulla retorica, sul sopruso e sul governare cinico, l’Opera House dava all’Australia la cittadinanza architettonica al mondo di questo futuro occidentale folle e apertissimo.
Così, il Gran Teatro Puccini dice a modo suo quanto grande è il panorama dei personaggi pucciniani. Quanto grande è Tosca, grande come la Statua della Libertà e S. Michele su Castel S. Angelo che le dona ali eterne per un tuffo memorabile, che ha fatto bella mostra anche nella messinscena firmata da Franconi Lee quest’anno al Regio di Parma. E Manon Lescaut libera come la morte… E la vita della Bohème… E i fantasmi de “Le Willis”, qui al Gran Teatro per la regia di Pizzi, che mi permetto di accostare a “Le Villi” per la regia di Maestrini che ho molto gradito al Teatro Regio di Torino. E il mito del West e dei cercatori d’oro… E l’enigma dell’oriente della dolcissima Butterfly, sfruttato biecamente da Pinkerton, così plasmata dalla regia suprema 2023 di Pizzi al 69. Festival… E quello terribile di Turandot, sempre seducente nelle riedizioni come quella di quest’anno all’Arena di Verona con lo storico, sontuoso allestimento zeffirelliano…
Ecco che questo manufatto imponente ricorda un uomo di straordinario vigore creativo umanistico: al suo cospetto, anche l’esteso specchio d’acqua artificiale, voluto da ingegneri e naturalisti, risulta più figlio di arte poetica che di varia economia. Puccini, cacciato dal suo eden a causa della rivoluzione industriale, con la sua opera cambia i connotati al paesaggio e ne cancella le prepotenze manifatturiere.
Sentivo di dover parlare di questo Teatro, trovarne il suo vero “luogo”, che non è solo geografico ma ben di più culturale e artistico. Con una venatura distraente di economia turistica.
Non ho potuto vedere tutto il settantesimo festival pucciniano, e quanto mi è dispiaciuto! Apprezzata dal profondo la regia di Bohème di Gasparon, non vedere anche la sua Manon Lescaut… Non poter ammirare il dittico Le Willis-Edgar, e Turandot (ah Turandot!) per la mano magica di Pizzi…
Un settantesimo epocale, per molti motivi. Uno di questi è certamente l’esordio alla presidenza del prof. Luigi Ficacci. Ci conoscemmo tempo fa all’Accademia di S. Luca a Roma, uno dei templi della civiltà artistica italiana, e subito scattò una luce di simpatia, fatta credo di una certa consonanza intellettuale. Mi preannunciò senza esprimersi apertamente che la sua missione a Torre del Lago sarebbe stata storica. Infatti, la scelta di dare al grande e caro Pier Luigi Pizzi la direzione artistica del festival del centenario è stata di grande portata e respiro. La sua scelta è stata per chi ha trovato una ottima sintesi di tradizione e innovazione, che è riuscito quasi a mettere d’accordo i giovani melomani rampanti innamorati di Vick buonanima, Michieletto e Robert Wilson con i tradizionalisti che vogliono vedere magistralità nella messinscena di una supposta “lettera”, alla Zeffirelli per intenderci. Ecco, Pizzi è soprattutto questo prezioso trait-d’union, con la sua cifra di piacevole estetismo, il rispetto profondo delle emozioni operistiche, che tanti contemporanei smorzano con simbologie enigmistiche.
E non solo.
Sono un sociologo delle arti, e un sociologo non è mai semplice commentatore, lavora sempre al di là delle regole. Mi voglio quindi sbilanciare con limpidezza su un tema molto praticato nel pettegolezzo operistico. Banale? No. Qual è la portata di un grande maestro? Come si eredita la sua grandezza? Non vi è strada migliore della vicinanza. E che questa sia per amore o professione, non rileva assolutamente: l’Arte vale di più di qualunque vita, e passione, e strategia. L’Arte è un processo che avviene sopra la testa dell’autore, che si chiami Puccini, Illica o P. L. Pizzi. Dunque, è errato soffermarsi su elementi troppo anagrafici. Massimo Gasparon ha già dimostrato di avere qualità. Massimo Gasparon è il nostro tramite per un perenne rapporto col genio dei suoi maestri, come io mi sento il tramite con i miei, Pietro Bellasi e Piero Bontadini. Quindi, questo settantesimo Festival Puccini non solo ha celebrato un’icona dell’Umano a un secolo dalla sua eredità (Giacomo Puccini), ma anche un grande caposcuola interprete dell’arte operistica crocevia del Parnaso (P. L. Pizzi) e, in aggiunta, ha fatto molto di più: ha messo in piena luce un allievo, Massimo Gasparon, che farà vivere per decenni e decenni ancora la grande arte del suo primo maestro. Che ne approva l’operato con i suoi occhi: ho visto il suo sguardo, lo sguardo di Pizzi apprezzare la sovrapposizione già visibile della pregiata cifra del suo allievo prediletto. Ci tornerò, su questo argomento…
La sua pregiata cifra… La regia di Bohème, mia prima passione pucciniana. Ho un rapporto profondo con quest’opera: era tra i simboli culturali del gruppo di adolescenti giustappunto un pò bohémien che vivevano le loro profondità al riparo delle opportune nebbie reggiane. Si ascoltava Erik Satie, Bob Sieger, L. V. Beethoven, Arlo Guthrie, Pietro Mascagni, Bob Dylan, De André e si discorreva creativamente di Baudelaire e Kafka, di Proust, della Beat generation, del Gruppo 63, di Gunther Grass, Freud, Lacan, Deleuze e Baudrillard. Ma Puccini, Puccini… certo, Les Fleurs du Mal, certo Jukebox all’idrogeno… ma Momus…! E Mimì e Musetta, nostre icone femminili, Parigi… Insomma, un grande spettacolo dentro di me e di noi, che prosegue in una rievocazione profonda anche 50 anni dopo. Per la regia di Massimo Gasparon, sulla scia, come detto, magistrale di Pier Luigi Pizzi. Buone le voci, ma lascio ai musicologi che già hanno tranciato i loro giudizi specialistici la valutazione analitica: io, che ho imparato musica e canto in teatro, osservando e gradendo o meno, mi sento di dire che il cast era all’altezza. Inoltre, l’interesse di chi è smaliziato in questo campo era tutta sull’interpretazione registica. Nella quale ho riscontrato alcuni colpi di genio e tanta scuola. Bravissimo Gasparon: un capolavoro lo scivolamento sul tramonto della silhouette amorosa tra il primo e il secondo atto, ottima la interpretazione da “Les halles” pre-Beaubourg/Centre Pompidou di Momus. Molto ben riuscito l’inserimento delle video proiezioni. Bello, bello.
La Prima di Tosca ha visto invece la regia di Pizzi in persona. Puccini amava più d’ogni altra la sua casa sul lago artificiale di Massaciuccoli, da dove all’alba partiva con la barca a remi a caccia di beccacce e beccaccini. Ho fatto alcuni anni fa la stessa cosa con l’amico Simonetti, due case in là rispetto a casa Puccini, per capire meglio alcuni lati della personalità del Maestro. Credo proprio di esserci riuscito. Il genio cosmopolita, acclamato a Milano, Roma, Napoli e Parigi, amava questo clima palustre, questi odori forti, quest’umidità pervasiva… Un Puccini carnale quello che ci rimanda “casa sua”, a Torre del Lago. Come solo un occhio sociologico può fare, volendo confrontare la vita quotidiana di Puccini, con quella di Verdi e Rossini attraverso le loro case, vediamo un Giacomo alla ricerca proustiana (novità di Massaciuccoli ed entourage bohémien), un Giuseppe alla sfida con la realtà (S. Agata e il suo redditizio latifondo coltivato), un Gioachino raffinato e cittadino (le sue case nei centri urbani della natale Pesaro, di Bologna, ove incontrava Ugo Bassi, o di Parigi, ove incontrava un giovane Wagner, pur distratto com’era da Antoine Carême e dalla cucina). E Floria Tosca? Tosca era Roma. S. Andrea della Valle era ancora sommersa nel popolare quartiere tra piazza Navona, Largo Argentina, senza l’arteria del Corso Vittorio Emanuele II. La chiesa, insieme a Palazzo Farnese e Castel S. Angelo, sono i poli di questa vicenda tragica, che si muove nel cuore della Roma papalina e anche della sua opposizione repubblicana. Puccini propende per la seconda, è evidente e Pizzi lo segnala. Anche qui il cast è stato all’altezza dell’importante occasione. Era il Puccini cosmopolita quello di Tosca, la sua modernità, in questo stupendo scenario naturale in una serata scintillante.
Allora buon lavoro a Ficacci neopresidente che, con queste ottime premesse, sarà mi auguro il fautore della celebrità definitiva e globale di questo Festival, importante per l’opera lirica, Parnaso delle arti. E per la celebrazione del grande genio spontaneo di musicista e drammaturgo di Giacomo Puccini.