Grande musica al bellissimo Teatro del Maggio Fiorentino, nuovo fiammante, con Mascagni che finalmente inizia a riprendere il suo posto nel panorama musicale italiano e globale, grazie alla programmazione gigliata e al suo quasi perfetto allestimento de “L’amico Fritz”, tutto prodotto in gloriosa autonomia dal teatro fiorentino.
Colui che è stato ingiustamente considerato per lustri “one-opera-man”, fu preoccupato dal grande successo della sua (quanto mai, sua!) Cavalleria Rusticana: siamo nel 1892, il 13 gennaio la Prima al Regio di Parma, un anno dopo le ovazioni al suo capolavoro sul tradimento in Sicilia, e molta critica invidiosa e rettilea dell’epoca sminuì la grandiosa qualità musicale di Cavalleria dicendo che era poca cosa e che, con un libretto così, anche il rumore del seghetto da ferro sarebbe piaciuto…
Mascagni, il cui temperamento volitivo è stato congruamente premiato in epoca fascista, prende l’aggressione subdola come una sfida, e commissiona un libretto volutamente all’acqua di rose (o, meglio, di vino rosé alsaziano) che “…non debba in alcun modo oscurare la musica”.
E, così, nasce “L’amico Fritz”. Forse, all’epoca, con le eco romantiche ancora vive, parlare d’amore come in quest’opera del livornese doveva apparire davvero “leggero”… Invece, ai tempi nostri, con il sentimento così villaneggiato da sessualizzazione a oltranza, è quasi originale. E, comunque, schiettamente piacevole e per nulla ovvio.
Ma ciò che giganteggia è davvero la sua musica sublime. Al passo coi tempi, e italianissima. Non teme Wagner triumphans e non attende la grande volata finale di Verdi: si esprime con tutta la varietà del grande compositore e si capisce quanto sottolinei che anche la grandezza di Cavalleria è soprattutto (verità!) nella eccellente interpretazione di un verismo musicale contemporaneo a lui, Mascagni colto e vissuto. Sempre lui, Pietro Mascagni, è capace di molto altro e le Muse, il Parnaso, sono proprio tutte con lui, guidate da Euterpe, musica e canto lirico, in persona. È capace di molto altro: lo dimostra con il rigore di una linea estetica che corrisponde precisamente al pendant artistico delicatamente morale che le arti italiane mantengono durante il Ventennio, a bilanciare lo sforzo pesante del potere e della sua pressione su una società in fieri.
Inizia così la sua epopea gloriosa, che affonda con il fascismo, per il quale malauguratamente prova un’attrazione fatale, corrisposta da Mussolini. E così, povero Mascagni, ciao dopoguerra: impossibile cancellare il capolavoro “Cavalleria”, ma tutto il resto rimane precluso da un caparbio ostracismo.
Ormai, però, sono passati 70 anni, e come è successo ad esempio al grande Sironi in pittura (ancora per poco in una bellissima antologica al Museo del Novecento di Milano), a molti interventi main-stream come la bellissima mostra sul “Realismo magico” che ha chiuso da poco i battenti a Palazzo Reale di Milano, si comincia finalmente a dimenticare la anacronistica temperie politica, per ricordare la grande arte che l’accompagnò.
Perché, cari amici, in Italia ci fu grandissima arte in quel periodo, di straordinario valore attuale e globale, mondiale, antropologico. Particolare, morbida come il nostro clima, priva di eccessi nevrotici astrattisti ed espressionisti (anche nel futurismo!), sempre un pò compiacente e ammiccante alla figurazione; umana dunque, non intellettualistica, e sinceramente popolare. È sul vuoto dei primi lustri del secondo dopoguerra, oscurato quasi un trentennio di grande arte precedente, che ci si risveglia, provinciali, in una contemporary sghemba, benché piena di principi e di valore, e dunque mezzi zoppi e orbi da quell’oscuramento; con il Gruppo 63 a soffiare sul fuocherello e la Scuola di Roma e la transavanguardia a cuocere ottimo abbacchio astratto, con ricetta afasico-autistico-pollockiana. E Pietro Mascagni, come tutti gli artisti del Realismo magico, che era pur sempre abbacchio, ma di straordinaria cucina italiana, a soffrire in silenzio nella tomba, raggiunta proprio poco dopo il suo amico Duce…
Pietro Antonio Stefano Mascagni: non “one-opera-man”, il livornese, “Hundred-opera-man”. Le ho contate, le composizioni del geniaccio dal carattere difficile (e allora, Beethoven?) sono 106: 15 opere, 2 operette, un’ampissima produzione sinfonica (76 pezzi), sacra (13 pezzi) e 2 suggestive colonne sonore di film.
Ma che c’entra la sua musica col suo carattere, oggi che è scritta e disponibile per i gentlemen? Proprio nulla. E invece, è un viaggio stupendo nella varietà italiana, c’è dentro più Donizetti e Bellini che non Verdi, ma, soprattutto, si sente la grandezza di ciò che diventerà la “colonna sonora” del nuovo audiovisivo: di certo, Mascagni è più padre di Morricone e fratello di Stravinskij di quanto non sia del suo coevo Puccini, che invece porta all’iperbole il più grande spettacolo d’arte mai visto e conosciuto, l’Opera lirica.
Modernità di Pietro Mascagni! La frizzante e formalmente deliziosa regia di Rosetta Cucchi mi lascia un solo dubbio, come ad altri commentatori: perché New York, che in Italia non se ne accorge quasi nessuno? Non ci sta col vino che è interprete principale dell’opera, e negli anni ’80 non brillava di particolare referenzialità… Big Apple, con coraggio, se si vuole decontestualizzare, allora andrebbe vista a fine ’90, e poteva essere un gran bel guanto di sfida, tra l’altro non ancora gettato, per anni, un preciso periodo, di una capitale umana che saranno ricordati come la cima di un periodo dalla felicità e benessere letteralmente di acme di un impero…
Mistero.
Si vede che Mascagni, che aveva calibrato benissimo trama e vini alsaziani (una delizia le loro resine profumatissime a quella latitudine…), deve soffrir ancora un poco… Dispiace lo giuro notare questa… ingenuità? …astuzia? nella clamorosa qualità registica della Cucchi, il consueto, affascinante ribollire di semiologie variegate e buon gusto, di qualità coreografica e luci, d’orientamento attoriale e identikit teatrale dei personaggi. Brava Rosetta, ma questa New York non m’incanta. Ovvero… Se deve essere un espediente per facilitare il cammino di Pietro Mascagni e del suo amico, Fritz, negli USA, giuro anche che sono il primo ad accettare un sacrificio non marginale di Alsazia e delicato spessore storico (e cultural-enologico). Ma, allora, al più presto, in ordine crescente, entrare nei cartelloni di: Opera House di Sydney, Fox Theatre di Detroit, Metropolitan Opera House di New York City, Royal Opera House di Londra, dove starebbe meravigliosamente, come ovunque orecchie e occhi operistici funzionano. Anche per l’ottimo cast di Firenze: Fritz Kobus (Charles Castronovo, perfetto), la deliziosa Suzel (Salome Jicia) e David il rabbino (un grande Massimo Cavalletti, non solo di perfezione vocale ma anche di interpretazione psicologica, tra l’ambiguo e il pedagogico di questo bellissimo personaggio).
La direzione d’orchestra di Riccardo Frizza è stata semplicemente commovente, ispirata e così coinvolgente da destare, non visto, l’orgoglio del Maestro nella tomba, che rinnova a 130 anni dalla Prima una bella rivincita. Molti commentatori non hanno colto il messaggio di Frizza: Mascagni è un grandissimo musicista e Frizza lo sa. Si vede da come ha diretto l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Un bijoux, una chicca, ma anche una prova di magistralità che speriamo costituisca un altro passo avanti nella valorizzazione di questo gigante dell’opera e della musica che è Pietro Mascagni, per portarlo alla giusta grandezza nel gotha, tra Verdi Puccini Rossini Donizetti e Bellini a ripartire dalla sua Toscana, sperando che anche Livorno post-comunista si metta in carreggiata, altrimenti propongo la palma mascagnana a questa Fondazione fiorentina, capace di così tanto in questo Amico Fritz.
Insomma, anch’io, come quel personaggio di Fellini, “volevo la mascagna”, alludendo alla pettinatura cool, a la page, originale, del musicista di Livorno.