Onore. Piacevolissimo, azzeccatissimo, davvero artistico. Luca Micheletti si carica metaforicamente sulle spalle Canova ed Henry Moore (che non usano polistirolo, ma pesanti materiali come il marmo di Carrara) e, affidandosi all’intuizione artistica, si avventura come un Teseo nella tana del minotauro: il problema dei disturbi della coppia umana tradizionale. Riesce così a illuminare, con il supporto di Pergolesi e Bernstein, un percorso intimo e scosceso, fatto di dubbi, pulsioni inconsce, abitudini, seduzione, straniante, individualismo, senso della famiglia, solitudine interiore, egoismo, benevoli inganni ma logiche infrazioni. Ed è solo la punta dell’iceberg di questo geniale intrattenimento.
Il primo pomeriggio di sabato 29 gennaio, Genova brilla al sole. Anche in mattinata si scomponeva nella fontana di Piazza De Ferrari come in microscopici numerosissimi fuochi d’artificio, silenziosi e fraterni. Dal terrazzo del Teatro Carlo Felice, aperto nell’intervallo tra “La serva padrona” di Giovanni Battista Pergolesi (1733) e “Trouble in Thaiti” di Leonard Bernstein (1952), uno dei più bei teatri d’Italia, è spettacolo nello spettacolo.
Ma ritorniamo al nostro Teseo/Micheletti. L’intuizione è stata grande e la sua realizzazione ha generato un prodotto operistico globale, che potrebbe andare al Metropolitan di New York ma anche a Radio City, all’opera di Parigi come al Sydney Opera House. Insomma, centro perfetto. Ma come ogni Teseo che si rispetti, una volta avuta l’ispirazione, per tirar fuori l’opera ci vuole un filo, un’Arianna.
Sua moglie, Elisa Balbo. Stupenda interprete (come lui).
Grande appropriatezza delle voci, che sono state ben calibrate nei cambi di timbro tra 1700 e 1900, e perfetta intesa recitativa, anche nei perfezionamenti dei personaggi circostanti. Grandissimo Bongiovanni in Vespone ed esilarante la scena di Capitan Tempesta, a ricordare non stupidaggini ridanciane ma la sottile ironia di Woody Allen, e a prefigurare ulteriori elementi di stile che appariranno nel secondo atto/spettacolo. La scena è ben congegnata, con contenitori mobili che rendono sia la filologia settecentesca che la dinamica condizione di metà ‘900. Ottime le luci, saggissimo l’uso delle proiezioni nel secondo atto, collegato al primo dal cambiarsi degli artisti negli abiti degli anni ’50 in un camerino vintage nel corso del duetto finale di La serva padrona.
Ma di più. La geniale idea di mettere insieme la Serva Padrona del Pergolesi metà ‘700 con Trouble in Thaiti del Lenny Bernstein di metà ‘900 non salva Micheletti-Balbi da un torbido coinvolgimento. Lo annuncia tra le righe e nelle righe lo stesso Micheletti nelle note di regia. Ah, l’arte! Gli intellettuali, i filosofi, che fanno così fatica a spiegare e a sciogliere i nodi, sgrovigliare la matassa per evitare malinconia e disagi, così, superati a l’aise da una combinazione di due capolavori di teatro musicale, condita da autoanalisi di coppia. Delizioso fruire di questo 1+1+1 cosmopolita e ben fatto, denso di emozioni e di versatile rivolgimento.
Tutto ben calibrato. La fusione ha aperto una rotta nuova su diversi piani: artistico, drammaturgico, scientifico. La melodia settecentesca ha stemperato la equilibrata dissonanza bernsteiniana, il combinato disposto delle leggi perenni della seduzione ben rappresentate dalla dialettica tra Serpina e Uberto ne La serva padrona si sono completate con le suggestioni del disturbo di Sam e Dinah connesso all’American way of life, vite matrimoniali frammentate e ricomposte in attesa dell’amore libero (da vincoli matrimoniali) che scatterà con Berkeley 1963 beat generation e hippy, fino alla decomposizione abeeiana di “Chi ha paura di Virginia Wolf” (1962, andato in scena martedì 25 e mercoledì 26 gennaio al teatro Ariosto di Reggio Emilia).
Ma Micheletti malgrado la trama a sfondo patologico, riesce nella difficile operazione di fare dire alle coppie tradizionali “Esistiamo”, non c’è solo l’altro da noi, con una sorta di lieto fine, comune ai due piccoli capolavori distanti secoli. E il guanto, rovesciato dalla pubblicità dell’indicibile intimità “gender” psicoanalitica, si rigira sul giusto verso, quello esterno, illustrando varietà e imperfezione, ma anche la sua rassicurante, tollerante, piccante naturalezza.
E non è più la sola tradizione del teatro musicale innovativo: diventa performance, autoanalisi di coppia, scoperta di nuovi vettori di coesione di cui lui e la Balbo sono materia vera dell’opera.
Dunque, Pergolesi, Bernstein e una performance della coppia Micheletti-Balbo. Tertium datur e vera modernità teatrale, colorita, intrigante, ben realizzata. E bravissimo Claudio Orazi, sovrintendente al Carlo Felice che ha contribuito a scegliere questo spettacolo. Un augurio a Micheletti-Balbo che lo sappiano promuovere bene per farlo scegliere al maggior numero di teatri nel mondo: c’è bisogno di questa qualità e perfezione nel teatro musicale di grande tradizione, e non solo in Italia!