di FABRIZIO UBERTO
Può una vicenda privata, in questo caso l’intenso e accidentato rapporto tra un padre e una figlia, assurgere a livello di paradigma delle relazioni umane in senso ampio e persino, in alcuni casi, del rapporto con se stessi? Risposta affermativa, a mio parere, nel caso de ” Il tempo che ci vuole”, il film di Francesca Comencini attualmente nelle sale. Un’opera intensa e struggente, rievocativa dell’accorata relazione tra la regista e suo padre, il grande Luigi Comencini. E fin dall’inizio del film, quando Francesca bambi na consegna al padre una statuetta di ceramica da lei realizzata a scuola, suscitando nel genitore la diffidenza che ne sia stata proprio lei l’autrice, emerge il tema della insicurezza dei giovani, che ben può essere alimentata da adulti troppo esigenti e carismatici.
E così assistiamo al lievitare di questa insicurezza prima della bambina e poi della ragazza, attraverso la prospettiva diacronica della storia dell’Italia degli ultimi cinquant’anni ( dalla contestazione studentesca al terrorismo, culminato nel assassinio di Aldo Moro).
In tutto questo arco temporale, nel quale si svolge l’evoluzione emotiva della Comencini, tra padre e figlia si sviluppa un rapporto intenso ed esclusivo, che porta la piccola Francesca a frequentare il set dei film diretti da Comencini senior.
Quest’ultimo appare compreso nel desiderio affettuoso ed autoritario nel contempo, di controllare ed instradare la ragazza, tanto più cogliendone l’instabilità e la vulnerabilità. Ma in questa osservazione, talvolta eccessiva, ( la indurrà anche a trascorrere un periodo insieme a Parigi) della vita e dei cambiamenti della figlia, il grande Regista in fondo rivede se stesso e quelle stesse pulsioni creative che lo hanno portato ad essere quello che è.
Nella memorabile scena dell’acceso scontro ( anche fisico) tra i due,
quando il Padre scopre l’uso di sostanze stupefacenti da parte di Francesca, l’uno e l’altra, dopo le lacrime reciproche, si riconciliano in una scena superlativa, per tensione e tenerezza.
Di fronte alla demoralizzazione della ragazza che si vive come una fallita, Luigi la rincuora, ricordandole che anche lui alla sua età, si era sentito più volte così, aggiungendo che dei fallimenti non bisogna aver paura, perché solo sbagliando e riprovando, si può realizzare qualcosa di buono.
Entrambi in fondo sono animati dallo stesso desiderio di fuggire dalla realtà, ma anche, paradossalmente, ( come in un valzer esistenziale), di rincorrere se stessi e ritrovarsi, uniti dal grande amore per il cinema che li accomuna.
Nelle ultime scene, in cui Francesca debutta con successo nella regia e fa da assistente al padre ormai malato nel suo ultimo film, è racchiuso tutto il significato di questo passaggio di testimone tra il fallimento e il successo, tra la morte interiore e la rinascita, lo stesso che costella la vita di molte persone.
Un film intenso, suggestivo e coinvolgente, arricchito dall’interpretazione straordinaria di Fabrizio Gifuni ( Luigi Comencini) e di Romana Maggiora Vergano ( Francesca), ( cui si perdona alcune incongruenze come l’assenza immotivata di una figura materna e un funerale non si comprende bene di chi), nonché una riflessione sull’amore talvolta macchiato dal desiderio di possesso e sull’ineluttabilità della perdita ( ben rappresentato nell’ultima scena dall’effetto speciale di padre e figlia che volano tra le nuvole in un raggiungersi, toccarsi e poi purtroppo perdersi), perché così è la vita, nell’implacabile ma fisiologico avvicendamento tra genitori e figli, in quello smarrimento ed eredità di affetti nei quali in tanti possono riconoscersi, in quanto marchio indelebile dei nostri vissuti.