Due Chiacchiere con l' Arte

Andrea Tavernati , SCRITTORE

INTERVISTA ALL’ AUTORE

 

 Parlaci di come è nato questo libro

L’idea è nata durante il periodo della pandemia. Il titolo “Haiku delle 5 stagioni” nasce dal fatto che tradizionalmente il genere letterario dell’haiku parla delle stagioni e del loro succedersi. Ma, durante la pandemia, mentre la natura ha continuato il suo corso, per noi esseri umani, che non abbiamo più potuto praticare gran parte delle nostre attività, è come se allo scorrere normale del tempo si fosse sovrapposta una sorta di Quinta Stagione che ha alterato la percezione di tutte le altre.

E infatti il libro è diviso in cinque sezioni. Le prime quattro sono dedicate ciascuna a una stagione, nella sequenza Estate-Autunno-Inverno-Primavera. Proprio con la primavera del 2020, però, è arrivato all’improvviso anche il Covid 19 e tutto è cambiato. Scrivere haiku dedicati alle solite quattro stagioni non aveva più molto senso. In questa ultima sezione ho cercato di rendere l’idea di quel “tempo sospeso” che abbiamo abitato tutti, nostro malgrado.

Oggi, quando sembra che ci siamo definitivamente lasciati alle spalle questo infausto lungo momento e tutto sembra essere tornato come prima -non si aspettava altro- ha forse però senso ritornare a quelle sensazioni e interrogarsi se davvero non ci hanno lasciato nulla, se davvero dentro di noi non si è depositata una nuova inquietudine, una incertezza di fondo con la quale dovremo ancora fare i conti.

 

 Una forma d’arte di origine giapponese. Come mai hai deciso di scrivere un libro così?

Mi sono imbattuto per la prima volta nella forma poetica dell’haiku durante l’adolescenza -non ricordo esattamente in quali circostanze- e da allora sono tornato periodicamente a frequentarla. Ciò che mi ha sempre affascinato nell’haiku è la sfida che impone allo scrittore: l’esigenza di esprimersi compiutamente con un numero estremamente limitato di parole, che vanno combinate insieme seguendo una schema fisso, almeno metricamente. Non è solo un esperimento di virtuosismo

verbale, ma un invito a riscoprire la preziosità autentica di ogni singola parola e a trovare il modo di combinarla con le altre così da farne scaturire una rinnovata intensità di senso e di potenza emotiva. Un imperativo importante in un’epoca come la nostra, nella quale le parole sono sempre più svilite, private di storia, di profondità e di precisione espressiva.

Anche pensando a tutto ciò, il periodo della pandemia mi è sembrato risuonare come un appello a riconsiderare lo scempio che stiamo facendo del nostro linguaggio. Una pausa imposta, una sospensione obbligata del quotidiano che ci dava l’occasione per riappropriarcene, sottraendolo alle esigenze della socialità. Per tornare al “grado zero della parola”, al legame originario tra parola e cosa.

E proprio per la sua peculiarità intrinseca, l’haiku mi è parso la “provocazione” perfetta per intraprendere questa esplorazione.

 

 Quanto è importante credere in quello che si fa, per poi vederlo realizzato?

Personalmente sono per la letteratura di ricerca e di progetto e credo che la parola sia uno strumento formidabile di conoscenza. Ciò che conta è il principio, l’intuizione di avere qualcosa da raccontare. L’espressione di una esigenza interiore, che può essere condivisa da altri, forse da molti.

L’individuazione della forma espressiva più congeniale alla propria af-fabulazione non è poi meno importante. Ogni storia può incarnarsi in diverse forme, ma non tutte le forme sono adatte ad esprimere qualsiasi contenuto, e, specialmente, non tutte possono aderire perfettamente alla sensibilità personale. “Aderire” nel senso letterale di: rivestire, calzare. Far coincidere le due facce della stessa medaglia – intuizione ed espressione – è il metodo per arrivare a un risultato soddisfacente.

Cioè “credibile”. Credibile prima di tutto per se stessi.

L’opera deve convincere l’autore del proprio farsi. L’autore deve convincere l’opera della propria buona fede. Questo sdoppiamento critico e autocritico, che permette di percepire le proprie creazioni come altro da sé e di separare l’autore dal lettore ( o dal potenziale fruitore dell’opera, in senso più ampio) è il primo test sulla validità del progetto intrapreso.

Quindi la sua credibilità non è un dato di fatto, o semplicemente una convinzione personale: è una conquista che si costruisce nel corso

della sua realizzazione ed eventualmente modificandone le coordinate strada facendo, se ci si rende conto che “non funziona”.

Fino ad arrivare al punto in cui si può ritenere di aver raggiunto un risultato compiuto. Il che non vuol dire: definitivo. Vuol dire: uno stato espressivo soddisfacente, in cui emozioni e pensieri hanno acquisito, attraverso le parole, una loro messa a fuoco che faccia brillare forme e colori, uno stato della materia in equilibrio, senza entropia.

È il punto di credibilità del proprio lavoro. E se può crederci l’autore, allora può crederci un editore, può crederci un lettore.

L’opera è pronta per vivere di vita propria e affrontare il mondo. Il che, ovviamente, non ha niente a che vedere con il suo successo commerciale, che dipende da molti altri fattori.

Ma diciamo che l’autore può cominciare a pensare di aver fatto qualcosa di buono.

 

 La cultura nel 2024, secondo te.

Certamente non bastano poche righe per rispondere a questa domanda. Mi limito a dire che un fenomeno preoccupante, nel quale mi imbatto sempre di più, è la diaspora di senso di ciò di cui si parla quando si parla di cultura.

C’è una schizofrenia di fondo: più si parla dell’importanza della cultura, meno si capisce a cosa si fa riferimento.

Quella delle origini? Della tradizione, della nostra storia? Ma il mondo è sempre più interconnesso e dobbiamo essere aperti alle culture altrui… Anche quando ci presentano aspetti che riteniamo eticamente inaccettabili? Allora una cosa è parlare di cultura e un’altra di civiltà? Ci sono civiltà più civili delle culture altrui?

O la cultura è un sinonimo di conoscenza? Più vaste le conoscenze, più profonda la cultura. Anche nell’epoca dell’intelligenza artificiale? Quanto la cultura dipende dalla capacità di processare dati, o dal potere di costruire territori culturali, come fanno Google, Meta…?

E c’è un unico territorio della cultura, o non ci sono piuttosto tante culture, sempre più specializzate? Quella dell’arte, sempre di più fatta solo per gli artisti, quella della comunicazione di massa, quella del web, quella della fisica quantistica….

C’è più cultura in un piatto di Cannavacciuolo o in una performance di Marina Abramović?

Esistono ancora una cultura “alta” e una cultura “popolare”? La prima della Scala e il Festival di Sanremo sono così lontani fra loro?

E un romanzo di Murakami e uno di Fabio Volo?

Che relazione c’è fra il successo, almeno quantitativo, del Salone del Libro di Torino, e il fatto che la lettura continui a essere un’attività, non dico di nicchia, ma certamente minoritaria? Che cosa stanno facendo realmente le persone, quando vanno al Salone del Libro? E quando si fanno un selfie con alle spalle la Gioconda?

……

Si potrebbe continuare a lungo. Sono tutte domande a cui ognuno può dare la propria risposta, ma che prima di tutto occorre farsi, per riflettere su cosa sia la Cultura (o cultura?) nel 2024.

 

 Come divulgare alcune forme d’arte per poterle apprezzare maggiormente?

Parlo della poesia, in particolare, che è l’ambito di cui stiamo trattando, ma questo può valere anche per le arti figurative o per la musica: ci vuole un’educazione a entrare in contatto con qualcosa che non fa parte della nostra esperienza quotidiana. La posizione della poesia è quella più subdola, perché utilizza uno strumento di uso estremamente comune, il linguaggio verbale, ma lo fa in un modo diverso, insolito.

Che questa educazione, quindi, cominci dalla scuola, è importantissimo. Solo frequentando la poesia fin da bambini si forma un’attitudine alla lettura che rende facile l’approccio ai codici di comunicazione, non razionali e sintetici, della poesia.

Purtroppo l’impostazione storicistica dei programmi scolastici trasmette agli studenti l’idea che la poesia sia una lingua morta, una cosa totalmente del passato, che non ha niente a che fare con la loro vita o, anche quando lo fa, utilizza immagini e pensieri che non fanno parte della loro esperienza.

Avendo portato i poeti contemporanei a contatto con i ragazzi nelle scuole, la prima cosa che ho potuto constatare è lo stupore di questi ultimi, i quali per la prima volta si rendevano conto dell’esistenza di persone che anche oggi scrivono poesie, e non lo fanno solo per un personale esercizio di autocoscienza, ma per parlare di tematiche ed esprimere emozioni che sono le stesse che stanno a cuore dei giovani. E spesso riescono a farlo con un linguaggio che le racconta meglio di quanto altri riuscirebbero a fare.

Questo è il lavoro necessario per creare un pubblico della poesia, che per ora non esiste, e per fornirgli gli strumenti per distinguere la buona dalla cattiva poesia.

Il paradosso è che invece esiste una quantità inverosimile di strumenti di comunicazione: gli editori specializzati fanno il loro lavoro, le associazioni culturali organizzano festival e presentazioni, la poesia

comincia ad avere pagine dedicate nei magazine culturali e rubriche su periodici e quotidiani, social e web sono invasi da Gruppi e Blog dedicati alla poesia…

Tuttavia la mia sensazione è che in tutto questo manchi una cultura della poesia (questo è proprio il caso di usare la parola “cultura”).

Un mondo semisommerso che pullula di persone che si autodefiniscono “poeti”, spesso senza nemmeno conoscere il lavoro di quei poeti che invece sono pubblicamente davvero riconosciuti come tali.

Un mondo in cui non esistono autorevolezze e criteri valutativi incontestabili e nel quale, di conseguenza, vale tutto e il contrario di tutto.

In tale ginepraio orientarsi è davvero difficile e spesso scoraggiante. Credo che gli operatori del settore dovrebbero invece prendersi la responsabilità di fare scelte più selettive e proporre più nette linee di demarcazione all’interno del territorio poetico, magari anche sulla base di criteri contestabili e facendo scelte di parte che, prediligano una poetica, o propongano dei criteri qualitativi fortemente distintivi.

 

 Progetti futuri

Ho un’altra silloge poetica nel cassetto. Già da qualche anno, per la verità. Un’opera fatta da testi lunghi, all’opposto degli haiku. Crearla è stato molto impegnativo e non ho nessuna fretta di pubblicarla. Sto aspettando la situazione giusta.

Attualmente sto invece lavorando sull’insieme dei miei racconti in prosa, di cui ho pubblicato anni fa solo una piccola parte. L’obiettivo, anche in questo caso, è quello di creare un libro che sia la risposta a un progetto narrativo coerente e unitario, pur con molteplici sfaccettature, e proporre una lettura della realtà attraverso lo strumento dell’arte di raccontare.

 

 Dove possiamo trovare il libro

Andrea Tavernati, Haiku delle 5 stagioni, Puntoacapo Editrice. Sul sito: https://www.puntoacapo-editrice.com/product-page/haiku-delle-cinque-stagioni-andrea-tavernati.

Oppure ordinandolo in qualsiasi libreria.

 

Di Manuela Montemezzani

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