Sulla tempesta giudiziaria che si è abbattuta sulla Regione Liguria ( in particolare sul suo Presidente), onestà intellettuale imporrebbe non una sbrigativa lapidazione mediatica, bensì un’analisi realistica e articolata.
Sul piano strettamente penale ad esempio, la responsabilità di Toti ( quella degli altri coindagati appare più nitida), per il reato di corruzione è tutta da dimostrare. Tale illecito si configura quando un Pubblico Ufficiale, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, in cambio del compimento di un atto di ufficio o di un atto contrario ai doveri di ufficio, ottiene per sé o per altri denaro o altra utilità. Ed è proprio su quest’ultimo punto che si giocherà la partita che potrebbe condannare o assolvere il Presidente.
Ricevere finanziamenti ( a quanto pare regolarmente registrati e messi a bilancio per la propria campagna elettorale), configura o meno la dazione illecita che integra il reato in questione? L’interrogativo non è peregrino, giacché in alcuni casi giudici sia di merito che di legittimità hanno alla fine prosciolto gli imputati perché, a loro giudizio, il fatto non costituisce reato.
Diverso è il profilo della responsabilità politica del Governatore.
Il punto non è la legittimità o meno delle concessioni di cui Toti avrebbe beneficiato l’imprenditore Spinelli. L’istituto della concessione infatti, a differenza dell’appalto, non richiede per nulla l’indizione di una Gara tra ditte concorrenti, ma si sostanzia, ovviamente valutati i relativi presupposti di legittimità, in una scelta diretta dell’amministrazione verso un solo beneficiario.
Il vero nodo della questione è invece il sistema del ” do ut des”, in altre parole quel rapporto di complicità ( del tutto inopportuno per un amministratore pubblico) che si è, in questo come in altri casi, generato tra un Presidente di Regione e un importante rappresentante dell’Imprenditoria locale. Sodalizio quest’ultimo che, articolandosi in una catena di richieste ed elargizioni, di pressioni e di aspettative, indiscutibilmente macchia di ” parzialità” l’operato di un amministratore pubblico e lo rende poco credibile sotto il profilo del suo ruolo di garante dell’Interesse pubblico.
Ciò premesso, lo scrivente si stupisce di chi si stupisce. Da sempre ( ci siamo dimenticati di Tangentopoli?) e ancor più di frequente da quando ( a mio parere malauguratamente) è stata abrogata la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, a che cosa si è ridotta la Politica? Risposta scontata. Perché quella che Von Bismarck definiva come ” Nobile arte del Possibile”, si è alla fin fine svilita in mera ricerca del consenso, in tutti modi e a qualsiasi costo. E all’origine di questa mortificazione, esiste, a mio giudizio, un problema meritocratico.
Buona parte dei nostri amministratori sia a livello nazionale, che locale, venendo catapultati in ruoli di primissimo piano, non per un particolare cursus honorum, ma perché “amici degli amici”, risultano del tutto inadeguati a gestire la cosa pubblica, per non dire improvvidi e maldestri. E una volta eletti, non avendo un’autonoma capacità ( non solo per insipienza personale ma anche perché pressati da questa o da quella lobby) di concepire progetti convincenti o provvedimenti veramente utili a migliorare le condizioni di vita della collettività, ripiegano solo su favoritismi e promesse lusinghiere, cui abboccano faccendieri di cui gli stessi politici diventano a loro volta veri e propri ” cavalier serventi”.
In fondo è questa la vera e avvilente natura di quell’identificazione tra i leader e il popolo, che è sbandierata come vessillo auto-elogiativo dai rappresentanti di molte classi dirigenti.
Quella stessa identificazione che, mortificando tra l’altro l’istituzione parlamentare, è stata foriera delle pagine più buie della Storia del nostro, come di altri Paesi
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Le mani sulla Liguria
Intervento dello scrittore Fabrizio Uberto
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