Cronaca

Cinquant’anni fa il divorzio: il 18 aprile rovesciato

E’ la più grande vittoria contro la DC e la destra dalla fine della guerra: 59% no, 41% sì. Vuol dire che l’Italia è cambiata per la forza ideale delle lotte di questi anni. Fanfani ne esce a pezzi. Noi lo avevamo detto. Ora lo dicono le masse e chiamano la sinistra unita a proporre al paese un nuovo orizzonte. E l'editoriale di Pintor titolò "Un 18 aprile rovesciato".

di FRANCO ASTENGO

13 Maggio 1974, un lunedì, si chiudono le urne aperte il giorno precedente 12 Maggio: l’Italia ha votato per il primo referendum abrogativo nella storia repubblicana. Si tratta di decidere se conservare o meno la legge sul divorzio introdotta nel 1971 grazie all’iniziativa di due parlamentari laici, il socialista Fortuna e il liberale Baslini e approvata dal parlamento con una maggioranza comprendente tutti i partiti dal gruppo del Manifesto al PLI, contrari soltanto DC e MSI.

 

La legge sul divorzio, lungamente attesa e segno evidente dell’avvio di un processo di modernizzazione nei costumi, era stata messa in discussione dall’iniziativa di gruppi cattolici oltranzisti che avevano raccolto le firme proprio per arrivare alla consultazione elettorale.

Ricostruendo così, con esattezza quella vicenda, si comincia a sfatare un mito: quello del referendum voluto dai radicali, che sicuramente rappresentarono un piccolo gruppo molto vivace a difesa della legge, ma che non ne furono i promotori, non disponendo all’epoca neppure di una rappresentanza parlamentare.

Il risultato di quella consultazione con il 69% di sì alla conservazione della legge dimostrò, peraltro, come il cosiddetto “paese reale” si collocasse ben oltre nella modernità della sua cultura e dei suoi costumi rispetto al quadro istituzionale: erano state forti, ad esempio le incertezze del gruppo dirigente del PCI ad accettare lo scontro referendario voluto dai cattolici, anzi si può dire che le elezioni anticipate svoltesi per la prima volta nel 1972 fossero state determinate anche dalla volontà dello stesso partito comunista di prendere tempo, per arrivare a una mediazione su questo argomento del divorzio che appariva come scottante per di più in un’epoca dove stava maturando, la strategia berlingueriana del “compromesso storico”.

Fu la segreteria democristiana, retta da Fanfani, a volere lo scontro diretto nella convinzione di riuscire a mobilitare la parte più oscura e conservatrice del Paese, quella che nel 1948 aveva dato alla DC la più grande vittoria della sua storia, anche grazie ai Comitati Civici di Gedda, alle Madonne Pellegrini di Pio XII, al grido dall’allarme sul “pericolo rosso”.

Fanfani, però si trovò a fianco soltanto il MSI di Almirante e non comprese per tempo le grandi trasformazioni verificatesi nella vita culturale e sociale del Paese, in seguito alla fase del “miracolo economico” e poi della ventata del’68, rivelatasi alla fine più importante su questo terreno del costume e dei diritti civili che non su quello più propriamente politico.

Si trattò di una grande vittoria, la prima, di uno schieramento progressista nato più dal basso, nella realtà sociale che non dai vertici dei partiti: ma quelli erano tempi in cui i vertici dei partiti sapevano catalizzare e aggregare il consenso, e il risultato, sul piano politico, fu sicuramente quello di uno spostamento a sinistra che determinò anche, 12 mesi dopo, il risultato delle amministrative del 15 giugno 1975.

Si stavano rompendo le barriere e si stava, finalmente, secolarizzando la società italiana: un balzo in avanti dal punto di vista della vita quotidiana, della libertà di pensiero e di comportamento cui diedero un forte contributo anche i cosiddetti “cattolici del dissenso”, la CISL dell’unità sindacale, le ACLI della scelta socialista di Vallombrosa.

Un processo di secolarizzazione della società cui non corrispose, però, la proposta di un’alternativa maggioritaria da parte della politica, dello schieramento di sinistra: la linea del compromesso storico, l’esplosione del terrorismo, la crisi economica derivante dallo “shock” petrolifero dell’inverno 73-74, le difficoltà d’aggregazione di una nuova sinistra, la retrocessione dal progetto di unità sindacale furono i fattori principali per i quali quella grande spinta venne meno e si arrivò, due anni dopo, alla triste soluzione del monocolore democristiano di Andreotti, con l’astensione di PCI e PSI: seguì, poi, il rapimento Moro e così il processo di secolarizzazione del paese prese più la strada del documento di Rinascita Nazionale di Gelli (1975) che quella dell’alternativa di governo da parte delle sinistre.

Eppure quella del 13 Maggio 1974 fu una grande vittoria della morale laica e della politica progressista, e come tale va ricordata.

Come riportato in epigrafe: Il Manifesto, nel suo “sommarione” caratteristico dell’epoca aveva titolato:

E’ la più grande vittoria contro la DC e la destra dalla fine della guerra: 59% no, 41% sì. Vuol dire che l’Italia è cambiata per la forza ideale delle lotte di questi anni. Fanfani ne esce a pezzi. Noi lo avevamo detto. Ora lo dicono le masse e chiamano la sinistra unita a proporre al paese un nuovo orizzonte. E l’editoriale di Pintor titolò “Un 18 aprile rovesciato”.

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