Come approcciare il sorprendente lavoro innovativo di un artista originalissimo come il veronese Albino Nicolis? Gli “uomini di mondo” dell’arte contemporanea alzeranno un sopracciglio: sorprendente? Innovativo? Originalissimo? Oggi, che la natura umana è in subbuglio, anticipata dalla stagione della contemporary con tutti i suoi eccessi (la seconda metà del XX secolo, il cosiddetto secolo breve perché accorciato da ben due guerre mondiali) usare parole come quelle sembra un grande azzardo. Intendo però riportare tutto al buon senso e ai sani principi dell’estetica, per poi studiare il caso di Nicolis in questa prospettiva sistemica, confermandone l’eccentrico.
Per prima, oggi in Italia è ineludibile la riflessione di Roberto Longhi. Ciò che certamente noi tutti studiosi e promotori dell’ “Arte come cosa viva e come sentimento” dobbiamo a Roberto Longhi, è il suo lucido affacciarsi all’allora recente disciplina della Storia dell’Arte con un istinto classificatorio e interpretativo, basato sui principi delle forme dell’arte. La sua enorme padronanza delle semiologie visive, la grande capacità di elaborazione sintetica del suo cervello ha davvero traumatizzato beneficamente un’intera epoca, ancora perdurante, dello studio estetico. È suo l’imprinting del lucido concetto sgarbiano che tutta l’arte è contemporanea, poiché l’effetto catartico della visione di un Botticelli o di un Haring è comunque emozionante oggi. Longhi insiste sul fatto che l’interpretazione tecnica dell’opera è veicolo di eccellenza e di emozione, e che, quindi, scoprirne le intrinseche regole è disvelamento del supposto mistero della catarsi artistica. Longhi è un punto di riferimento di questa nuovo modo d’intendere l’arte che consiste nell’approccio storico. Una competenza che oltrepassa anche i confini nazionali, mentre tutto il mondo, ad altre longitudini e latitudini europee o, meglio, occidentali, ricerca chiarezza d’interpretazione, oltre l’inerzia dell’esperienza iconologica. In estrema sintesi, Longhi sostiene un criterio metastorico di interpretazione dell’effetto artistico, incentrato sulle semiologie percettive, lo fa in primis sulla pittura, ma poi estende alle altre arti visive presenti nel suo tempo, scultura, mosaico e architettura, un poco trascurando la fotografia e non potendo contemplare le arti digitali. Semiologie percettive visive sono per eccellenza linee e colori, che sono effetto di luce e assumono forme, dimensioni plastiche e connessi aspetti geometrici, come prospettiva e organizzazione spaziale su quello che Longhi chiama “il cubo della tela”.
Partire dalla lezione di Roberto Longhi per parlare del lavoro d’arte visiva del veronese Albino Nicolis è utile prima di tutto per verificare la sua appartenenza ai criteri intrinseci dell’estetica longhiana, così ampiamente celebrati e condivisi tra i critici contemporanei: in tal modo collochiamo l’autore nel novero delle produzioni d’arte visiva più cittadine dell’Arte.
Secondariamente, però, non possiamo non considerare gli elementi della correntezza e le derive stranianti della rivoluzione in corso da qualche decennio rispetto alla schematica longhiana. Longhi non ha visione sociologica: vede la fotografia avvicinarsi alla pittura e i fotografi affiancare o sostituire i pittori, ma lui non si domanda se qualcosa è successo sul versante del fruitore rispetto alla pittura con il diffondersi della nuova tecnologia ottica fotografica. Insomma, Walter Benjamin con il suo dirompente “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” e il mio “Concettuale fotografico” sono fuori dal tiro longhiano.
In terzo luogo, il rapporto con la cosiddetta Arte povera di matrice celantiana, riferimento di contemporaneità e suggestione ideologico-filosofica del brillante critico genovese, è ben presente in Nicolis. Evoluzione in un certo senso della Pop Art? Sì, innegabile questa presenza. E qui Longhi ci lascia proprio: egli è l’epistemologo dell’accademia pittorica o visiva del suo tempo, e non c’è alcun dubbio che il suo lavoro sull’arte fino all’impressionismo (dove si ferma la sua brillantezza) sia importantissimo; egli fornisce poi un codice di disamina della Storia dell’Arte che, con lucidità e fermezza ispirata, getta una luce di interpretazione diacronica che va senza soluzione di continuità dai graffiti preistorici alla prima metà del XX secolo.
Infatti, come quarto e ultimo punto, l’analisi di Albino Nicolis si può concludere solo in Svizzera, a Losanna, dove presso il Museo dell’Art Brut voluto da Jean Dubuffet si stigmatizza una nuova concretizzazione della catarsi oggi, tra simboli, tecniche e riferimenti creativi.
La grande varietà ed estensione della produzione nicolisiana ci aiuta ad effettuare questa lettura profonda, destinata a mostrare un caso di grande eccellenza nella temperie quadrivoluzionaria che viviamo. Albino preferisce non parlare della sua arte, ma la sua casa è tutta popolata delle sue presenze. Oggi, che siamo in epoca prenatalizia del 2023, la mente associa quelle presenze artistiche al silenzio di un presepe, in celebrazione di una sorta di natività estetica quadrivoluzionaria dal sapore benefico. L’opera di Nicolis vive la crisi dell’identità locale e nazionale: ci sono segni di resa e di protesta di fronte alla implacabile globalizzazione con l’emergere di significati che superano la dimensione del locale, geografico e culturale. In Nicolis, l’antropocene è vissuto come sofferenza della tradizione e dei simboli di sempre, anche quando conflittuali: ecco emergere molti richiami alla tradizione cristiana, inseriti in cromatismi di disperazione; poi l’idea geopolitica del Paese, sofferente e girato in molti modi a ruotare nei 360 gradi; simboli politici decaduti non importa se affidati o no, pura espressione di una semiotica ormai obsoleta e non più rassicurante. Non lo tocca la condizione digitale: Nicolis è attaccato alla materia e alla trasformazione manuale, addirittura prima che analogica. Il digitale è rimosso e considerato avulso, anche il fishing dalle nuove cave (che sono anche quelle della citata Arte povera celantiana) privilegia quelle della memoria, quelle simboliche e dell’infanzia, invece delle particolari materie tecnologiche attuali di altri artisti coevi. Riguardo all’aspetto estetico, ciò comporta che le suggestioni concettuali che Nicolis utilizza provengono in buona parte dagli anni 60, 70 e 80, con sottolineature evolutive e anche effrative dei simbolismi originari. La materia insegue e, oltre ai materiali di recupero, ci sono applicazioni da oggettistica del secondo dopoguerra, con soldatini della celebre Airfix e di altre produzioni, ad esempio, a ricordare l’infanzia e a donare una terza dimensione da bassorilievo a molte delle opere. Appare evidente la critica alla guerra e la sensibilità di Homo Novo che il veronese esprime, con la proposta di sentimenti rappresentati dal ricorrere di un’apparentemente ingenua simbologia cardiaca, rivestita e ambientata però in modo avvedutissimo, collegata spesso a temi dirompenti di conflitto e a colori a sorpresa.
Non è tragedia e non è commedia la cifra drammaturgica della catarsi che Nicolis propone con la sua arte: oscilla tra l’una e l’altra in un ribollire di pennello, con una varietà vorticosa di colore e di forme che sempre veicolano un messaggio, ma che sono arte pittorica e non filosofia perché ciò avviene sempre con l’uso della pittura. La pittura si conferma Regina dell’opera di Nicolis, proprio perché, oltre al concetto filosofico, appaiono al suo servizio altre ancelle in salute, come il collage, il (basso/alto) rilievo, il mosaico, la scelta iconologica, il fishing nelle “nuove cave” dei resti della società di oggi.
Immagino le opere del veronese in un ideale contenitore, appese alle pareti: sarebbe come un trionfo d’abbandono a volute rubensiane, dove le morbidezze del tratto di pittura e la varietà del colore creano un effetto psichedelico. Nemmeno i muri possono essere sereni, perché spesso la pittura di Nicolis eccede tela e supporti vari e va a occupare anche la cornice, quasi un graffito, come per sfuggire al confino… e andare nell’etere, invadendo magari spazi para sensoriali per non lasciare possibilità di quiete nella contemplazione. Ed è la gioia del colore e delle volute, un eclettismo giovanilista che in alcuni momenti ricorda Basquiat e che segnala la intima felicità di quest’anima, buona, generosa e preoccupata di essere lesa, distrutta e fagocitata da chi buono, generoso e pacifico non è.
La gabbia longhiana (non quella del grande maestro, ma quella dei suoi apprenditicci seguaci), non rinchiude Nicolis: per non essere considerato bestia feroce, Armageddon del canone estetico dell’arte, il veronese preferisce la solitudine e nasconde dentro di sé quell’elan vital che la sua produzione evoca con precisione. Ma io gli credo e gli do affidamento: do voce alla sua visione del mondo che non deve essere la mia e nemmeno essere convincente, poiché essa è puro pretesto per dare vita a una catarsi artistica originale. Quella che Longhi non poteva conoscere per motivi anagrafici e che il suo studio approfondito e prezioso della poiesi pittorica umana non poteva considerare nell’automazione della rappresentazione tramite la tecnologia ottica fotografica. Un fiero fautore dell’autonomia dell’arte non può condividere la vertiginosa evoluzione eteronomica conseguenza dell’ipermediatizzazione, delle nuove tecnologie, della fusione globale nella cultura e nell’economia. E, come anche la emersione del femminile nella società umana conferma, con il suo intrinseco eclettismo.
Questo noi troviamo nel lavoro di Nicolis: centinaia di opere, un vortice creativo, nessuna fotografia con Vittorio Sgarbi per sentirsi qualcuno, una casa museo sempre sul punto di venire chiusa a chiave. E poi il mio vigoroso sostegno, il mio incoraggiamento, la precisa volontà di chi lo conosce che, per fiducia aspecifica, riconosce a quest’artista il ruolo di portatore di generoso coinvolgimento del fruitore, di sentimento artistico puro, esente da basse propagande che lui, Albino Nicolis, rifiuta. Come le rifiuto io. Non perché sono buono, ma perché sono inutili all’arte vera, l’unica che m’interessa, quella che oggi trova i suoi bacini sistemici fatti di artisti segni ed estimatori in un universo estetico come di infinite galassie e sistemi di pianeti. E una di queste è la Galassia Nicolis.
Si ringrazia per la collaborazione la curatrice Doriana Della Volta de “I percorsi dell’Arte”.