Alzi la mano chi non è caduto almeno una volta in quello che è già un “modo di dire” e anche abbastanza in voga: le giovani generazioni cercano il guadagno facile a fronte del minor sforzo lavorativo possibile. Ma siamo davvero sicuri di quanto ci capita di affermare o stiamo diventando semplicemente vittime dell’ennesimo luogo comune? Analisi dei fatti alla mano, occorre chiedersi se ai giovani piace davvero lavorare meno o se invece, come al solito, le nuove generazioni sono chiamate ad essere sentinelle di una svolta decisiva del sistema socioeconomico. Una inconfutabile verità ci conduce al cuore di un discorso che è ovviamente globale tendendo a scagionare la poca voglia di produrre dei nostri ragazzi. Insomma: l’avvento di Internet e dei social media ha cambiato non solo i linguaggi ma anche il modo di concepire il lavoro. Conviene dunque invertire il nostro luogo comune di cui sopra entro termini di prospettive nuove per un futuro lavorativo diverso, inedito, accessibile e finalmente (magari) raggiungibile dalla quasi totalità degli abitanti del nostro pianeta: in altri termini, l’era del Web non sarebbe responsabile di una mentalità da sforzo lavorativo minore bensì input verso un modo di lavorare che finora non si era mai visto … insomma, una vera e propria rivoluzione copernicana del lavoro. Se ancora non fosse chiaro, stiamo parlando di Smart Working e di conseguenza anche di settimana lavorativa ridotta. Ma lo tsunami di tutto questo nuovo è oggi davvero pienamente possibile? Lo è a livello nettamente mondiale? A che punto siamo in termini di lavoro flessibile o di esperienze lavorative da remoto nel 2023? In che modo giovani e meno giovani verranno coinvolti in questo neo-sistema nell’immediato futuro?
Di recente, ha dato esito incoraggiante un test effettuato in Gran Bretagna sulla settimana lavorativa corta, quella di quattro giorni: praticamente un successo. Voglia di lavorare saltami addosso? Non proprio. Piuttosto quanto segue: io, azienda, ti propongo di portare a termine in meno ore un carico di lavoro diversamente distribuito e tu lavoratore disponi di maggiore tempo libero per gestire la tua vita che non va identificata solo in termini di produttività. Nella strategia della famosa settimana lavorativa breve, lo smart working è ovviamente l’anello principe della catena.
Tremila persone provenienti da sessantuno aziende diverse hanno sperimentato, per circa sei mesi, settimane lavorative da 32 ore invece che 40 e tutto questo senza diminuzione alcuna dello stipendio.
I risultati? Lavoratori con un evidente miglioramento del work-life balance e un benessere generale maggiore; dipendenti del circa 39% meno stressati e oltre la metà di essi in grado di bilanciare meglio lavoro ed incombenze domestiche.
Le aziende coinvolte in questo mega test hanno riscontrato gli stessi livelli di produttività di sempre e un numero di dimissioni drasticamente ridotto, tant’è che oltre la metà di queste aziende ha caldamente sostenuto di voler estendere il periodo di prova del test, mentre diciotto di esse vogliono implementare il modello pilota per migliorarlo nel prossimo futuro fino a renderlo permanente.
E se non sono mancati dipendenti che hanno mostrato preoccupazione per la necessità di dover convivere con enormi cambiamenti lavorativi, ciò che in realtà i meno attenti non hanno considerato è che gran parte di questi cambiamenti sono arrivati nella nostra epoca per restare. E i giovani questo lo sanno bene: sarà questo il loro nuovo modo di lavorare. L’Italia? Anche il Belpaese segue, se pur con le solite caratteristiche di un imbarazzante ritardo, il trend mondiale della scoperta del lavoro agile come risorsa base altamente democratica (almeno si spera) per il futuro. Gli italiani non hanno mai parlato così tanto come in questi ultimi mesi di remote working, tanto che molte aziende sono state spinte a confermare i modelli introdotti a seguito della pandemia. Già infatti nel 2022 il lavoro da remoto ha visto un decisivo aumento rispetto agli anni pre-Covid, mentre studi del politecnico di Milano stimano un’ulteriore crescita del lavoro online proprio a partire dal biennio 2023/2024.
Inoltre, secondo dati riportati da FlexJobs, una delle più grandi piattaforme internazionali per la ricerca di lavoro online, il 65% dei dipendenti che trovano lavoro tramite piattaforme interattive similari come ad esempio LinkedIn o WRR, riferisce che vorrebbe continuare a lavorare da remoto a tempo pieno, mentre il 31% vorrebbe un ambiente di lavoro ibrido. A dare man forte a questo tipo di sondaggi anche l’influente parere dell’amministratore delegato di Facebook che in tempi recentissimi ha personalmente previsto quanto almeno il 50% della forza lavoro contrattualizzerà e lavorerà da remoto entro il 2030, mentre il CEO della statunitense Salesforce, azienda leader mondiale assoluta del cloud computing, allineandosi a questa previsione, ha recentemente dichiarato che “la classica settimana lavorativa da 8 ore è morta”. Quale altra prova inconfutabile? Al di là dei dati e delle posizioni ancora contrastanti, senza dubbio il trend del lavoro on line, del lavoro flessibile e in generale dello smart working è qualcosa di molto, molto concreto. E non si tratta solo di un desiderio delle aziende, bensì degli stessi lavoratori visto che sia per le une che per gli altri i vantaggi sono moltissimi: la maggiore flessibilità, la possibilità di lavorare da qualsiasi luogo, un migliore benessere mentale e fisico, un maggiore equilibrio tra vita lavorativa e privata. È allora facile pensare che se già noi, quelli della generazione a cavallo tra l’analogico e il digitale, siamo pronti e propensi ad abbracciare la rivoluzione copernicana del lavoro, i nostri figli e nipoti questa rivoluzione la respireranno come l’aria e la gradiranno come il pane. Che poi non si tratta solo di “dove lavorare“. Anche i lavori in sé stessi sono già cambiati o stanno mano mano cambiando, richiedendo tutta una serie di nuove skills. Il digitale sta prendendo il sopravvento dappertutto e forte sarà la richiesta di tutta la società relativamente ad un forte spirito di adattamento.
Pensiamoci: un colloquio può essere effettuato via Zoom, si deve essere produttivi per otto ore dal divano di casa, si possono e si devono fare corsi per il social media managing o per la scrittura in chiave SEO o anche per l’approfondimento del potenziale dell’intelligenza artificiale; si è dentro una redazione giornalistica a ottocento chilometri da casa, il tuo capo risiede a Berlino, la sede centrale dell’azienda per cui lavori è un grattacielo nel quartiere manageriale di San Francisco: le dimensioni sono veramente nuove e tutte generano domande lecite … e tutte queste domande lecite richiedono nuovi approfondimenti. Bisogna essere veramente preparati, perché se è vero che il lavoro contribuisce a definire una parte importante della nostra identità, è chiaro che un lavoro maggiormente digitalizzato creerà personalità sempre meno analogiche e sempre più comunicativamente lontane dal mondo attuale e dunque distanti anni luce dalle più sprovvedute periferie.
Il mondo, l’uomo comune, è davvero pronto a tutto questo? Quali nuovi diritti e doveri nasceranno con la rivoluzione copernicana del lavoro? Quali rischi?
Difficile rispondere a tutti questi interrogativi nel giro di un articolo. Quel che è certo è che nel mondo del lavoro liquido che crea economia liquida e crea rapporti migliori col tempo libero – e speriamo non felicità altrettanto liquide, siamo già tutti praticamente immersi, fino al collo. Senza accorgercene, ci siamo tutti dentro, pienamente. E quindi, che dire: abituiamoci a figli sempre più a lavoro da casa e non a casa da lavoro, abituiamoci a licenziamenti sempre più frequenti e a salti sempre più numerosi da un campo lavorativo all’altro. Quel campo lavorativo che ormai abbraccia il mondo intero. Ciò che però più dispiace in tutta questa pur felice storia è che probabilmente i campi più abbandonati di tutti saranno proprio quelli coltivabili, quelli materiali, quelli dei nostri nonni: la terra dove attende la spiga e per fortuna ancora germoglia il grano, grazie – per ora- ad un revival di vecchi interessi negli antichi mestieri. La terra laddove la mano di un migrante sfruttato è già pronta a coltivare, mietere, falciare. Insieme alla mano lucida – e spero almeno un poco empatica – di un contadino robot.
Angela De Nicola