Non dimenticheremo mai il sacrificio dei compagni cileni, ma a cinquant’anni di distanza la memoria della tragedia del “golpe” che defenestrò il governo legittimo di Salvador Allende merita un di più di riflessione rispetto al semplice ricordo.
L’11 settembre 1973 il caso cileno ha acquisito grande rilievo internazionale sia per le potenzialità implicite nella situazione politica precedente al golpe sia per le stesse conseguenze dell’azione militare che ancor oggi si riflettono sul paese sudamericano.
In quel momento, infatti, la situazione cilena nella sua fase democratica poneva un problema di natura internazionale proprio perchè introduceva un forte elemento dialettico costituendo un’eccezione nell’ambito subcontinentale.
Unidad popular, il movimento di Allende, aveva un programma di ispirazione marxista e il Presidente si era presentato come fautore di una trasformazione in senso socialista della società cilena, nel rispetto della costituzione e della legalità.
Era questa la clausola politica indispensabile in una situazione molto delicata sotto il profilo degli equilibri politici: Allende era stato votato con il 36,2% . Sulla sua candidatura al Congresso erano confluiti i voti democristiani ( il cui candidato Rodomir Tomic aveva ottenuto il 27,8% del voto popolare) sulla base di una convergenza diretta a sbarrare la strada alla destra (il conservatore Alessandri aveva ottenuto il 34,9%).
L’elezione di Allende provocò reazioni di diffidenza negli USA, dove i programmi effettivi (non quelli elettorali) del neo-presidente erano noti e ben presto fu avviata una attività di boicottaggio del governo: nel 1976 un’inchiesta condotta dal Senato degli Stati Uniti stabilì come fosse avvenuto il diretto coinvolgimento della CIA nella formazione di un fronte di opposizione ad Allende e nella collaborazione con gli ufficiali che attuarono il colpo di stato.
Allende del resto avviò un programma di nazionalizzazioni nel settore minerario, in quello bancario , finanziario e agricolo toccando gli interessi di paesi stranieri e in primo luogo proprio degli USA.
La crescita della spirale inflazionistica portò ad una serie di scioperi come quello delle “casseruole” sull’aumento dei generi di prima necessità e – soprattutto – quello degli autotrasportatori (finanziato direttamente dagli americani) che mise una categoria numericamente limitata in una posizione strategica per provocare conseguenze economiche dirompenti.
Costretto a tenersi all’interno delle regole democratiche, Allende non ebbe possibilità di reagire.
Quando nel marzo del 1973 indisse le elezioni per il rinnovo del Congresso ne uscì sconfitto, dato che la coalizione di destra conservò la maggioranza di cui già disponeva (Confederazione della Democrazia, comprendente la DC al 55,49; Unidad Popular al 44,23).
Il resto da marzo a settembre 1973 è storia nota e il governo militare di Pinochet governò il Cile sino al marzo 1990.
Nel golpe con Allende sarebbero morti 3150 militanti oltre alle migliaia di incarcerati, torturati, esiliati .
Coloro che disponevano della forza ma non della ragione non si limitarono ad abbattere un governo legittimo ma sperimentarono un sistema economico – sociale improntato al liberismo selvaggio dei “Chicago – boys” anticipando di un decennio l’era reaganian – tachteriana.
Rimangono due punti da discutere: l’accettazione da parte del Partito Socialista e della Democrazia Cristiana cilene di una logica da “fine della storia”; una logica – che oggi viene giustamente fatta notare da diversi analisti – avrebbe poi ispirato la transizione in un paese ormai gestito a “democrazia protetta” dove la democrazia formale non poteva toccare il modello economico, né aprire il capitolo delle violazioni dei diritti umani che il dittatore riteneva sistemato con l’autoamnistia del 1978.
Un peso della storia che condiziona ancora adesso la presidenza Boric e il partito comunista al governo in paese che, dopo la cosiddetta “esplosione sociale” del 2019 ha prima eletto una Costituente favorevole al mutamento costituzionale (2021) poi bocciando la proposta nel 2022 rimanendo così in vigore quella del 1980.
La seconda considerazione conclusiva dovrebbe riguardare il peso che la vicenda cilena ebbe sul “caso italiano” nel provocare la proposta di “compromesso storico” (dizione usata giornalisticamente ma non aderente alla realtà dei contenuti) avanzata dal segretario del PCI Enrico Berlinguer. Per motivi di economia del discorso non è possibile in questa sede inoltrarsi in una analisi che mantiene però i suoi aspetti di riflesso sull’attualità: basterà concludere con un interrogativo, quanto l’azione del PCI e di Berlinguer in quel momento fu ispirata dall’esperienza cilena e quanto invece come occasione dall’idea di ripresa della linea togliattiana dei “fronti popolari” poi tradotta nella solidarietà antifascista brutalmente interrotta dalla DC all’avvento della guerra fredda e dell’accostamento agli USA?