Impossibile abbandonarsi a una lettura storica, diacronica, tradizionale di un fenomeno artistico come il newyorkese Roy Fox Lichtenstein, NY 1923, NY 1997.
Vi racconto quindi le mie suggestioni, che provengono da una costellazione di pensieri e memorie che si aggregano, rotanti, intorno alla mostra inaugurata pochi giorni fa a Parma, in un posto molto suggestivo: i sotterranei di Palazzo Tarasconi, situato in Strada Farini, poco più in là dei festosi bar degli aperitivi migliori dell’Emilia occidentale e di luoghi identitari di proverbiale gastronomia e ristorazione. Devo un ringraziamento alla sensibile introduzione fattami da Veronica Boldrin, acutissimo ufficio stampa della mostra: se tali fossero ovunque i servizi a noi commentatori, sia la comunicazione che l’arte se ne avvantaggerebbe, con grandi risultati per la cultura e per le istituzioni che ne gestiscono gli eventi.
il 16 settembre del 2020, proprio all’inaugurazione di quel luogo così suggestivo, ventre della Città Ducale, ho visto uno Sgarbi veryhigh giocare Antonio Ligabue contro Vitaloni. Sembrava un viaggio in un prezioso, primiparo ventre gravido, allora; oggi, ormai, Palazzo Tarasconi è un nome di rispetto, degno di mostre… regali.
Roy, anglicizzazione di “roi” francese (dunque Re di qualcosa), e subito dopo Fox, come la volpe, e poi ancora un piccolo e pregiato Stato europeo, ma senza una -e, quasi a richiamare un altro essere silvestre con il Lic- (che non è Liec-), la radice del nome greco del lupo, come ad esempio in lic-antropo…
Sembra che il nostro newyorkese d.o.c., ben più consapevole di chiunque su tutta questa ingombrante nominalistica che lo assilla, decida ben presto di travolgere gli argini, con scelte di prima emblematicità: per capirle tutte, però, non dobbiamo dimenticare che la frattura dell’aniconico ebraico trova in lui un vero rottamatore. Modigliani, che anagraficamente quasi gli passa il testimone, al suo confronto è un timido figlio di rabbino, lascia spazi di rispetto all’assenza di figura. Lui, invece, è un vero ariete: non solo sceglie figurazioni smaccatamente iconiche, ma anche segue Walter Benjamin, altro grande spirito, sulle linee della riproducibilità, sbeffeggiando tutti con un certosino, accuratissimo processo di riproduzione e stampa. Oddio, deve avere molto coraggio un figlio di Davide chiliasticamente aduso al sacrificio della rappresentazione, per abbracciare il lancinante del fumetto, quasi come invocazione o celebrazione… E, dunque, nessun cuor leggero, se sembrasse mai. Roy Lichtenstein è più che mai responsabile: il suo processo di produzione è attentissimo e dimostra l’arte intrinseca della sua manifattura, anche al di là del genio iconologico. Ed è così che si merita la palma, insieme a Warhol, di padre della Pop Art: Haring, Pistoletto, Baj, Banksy esistono solo dopo di lui…
Roy è limpido, lucido e semplice di risultato come i cross di Manhattan, ha dentro di sé un messaggio umanissimo. La “forma Lichtenstein” dilaga e lo rende riconoscibile ovunque: lui esagera, estende il suo rito iconografico fino a travolgere l’arte più impressionante, ed ecco l’estetica violenta della fumettizzazione di “Camera da letto ad Arles” di Van Gogh. Ciò dimostra un percorso estetico molto ragionato: l’artista Roy vuole dirci che la nuova arte può tutto, anche la manipolazione seria, la trasformazione della grande arte di sempre. Un sorridente monito ai critici (era ora!), ai polverosi e masturbatori storici dell’arte, agli studiosi di estetica, che aprano a una visione sociologica, e meno altera: la camera di Arles del grandissimo olandese può infatti essere un fumetto, anzi lo è già nella nostra mente, ed è in un non-luogo, cioè in una specie di sistema di coordinate google map del mondo immaginario, che assomiglia molto di più alla sua proposta che a quella di Van Gogh. Ed è sinceramente popolare.
Il Pop di Roy volpe-e-lupo è una profonda rilettura dell’immaginario umano, una esplosione di fiducia nelle nuove generazioni (iconologiche…) che così riscrivono la storia dell’Arte. Lui e Warhol si palleggiano questo seme del Terzo Millennio, e lasciano a noi in eredità il loro genere, che trova maniera ed epigoni, tra l’altro, in Marco Lodola e Jeff Koons.
Se quindi Lichtenstein colpisce con una iconografia sorretta da processi poietici di grande qualità e manualità (non è semplice disegno, ma una sofisticata manifattura articolata su fasi, tecniche e materiali per la produzione dei prototipi) e con questi sfida l’arte storica e Van Gogh e Picasso, oggi l’arte digitale sfida lui. Ma sono fatti della stessa pasta, risentono di “una forte e perdurante influenza sui creativi della visione” (G. Mercurio, nel bel catalogo di BesideBooks).
Ed ecco allora che, come evocata, Antibrote, artista digitale, riprende con delicatezza una delle sue opere più famose e senza rileggerla la declina, seguendo le generazioni e cambiandone il sentimento. Se “Crying Girl” di Lichtenstein nel 1963 piangeva, una sua discendente digitale nel 2023 non piange più. Ha i capelli un po’ rasta, gli occhi del papà o della nonna e l’effetto moderno del punk di mamma tra i capelli, con la delicatezza del retaggio hitchcockiano ereditato da nonna o zia: I’m non crying, le fa dire Antibrote. E credo che Lichtenstein avrebbe gradito o, meglio, avrebbe riconosciuto che proprio il digitale è uno dei percorsi attraverso il quale fare vivere la sua straordinaria visione epocale.