di Angela De Nicola
Ricordo di averlo letto da qualche parte ed il concetto era più o meno questo. Da qui la storia che tutti conosciamo e che recita più o me no così: per 500 lire. Per 500 lire a biglietto si sarebbe potuto fare. Perché no. Una cifra modica, una serata ai tavoli, anzi tre serate in tutto. Non una di più. Musica dal vivo, cena inclusa. Ed occorreva sollecitare un po’ di gente: c’era il rischio effettivo che molti non se la sentissero di partecipare visto il tempo meteorologico tipico di gennaio. Questo perché i tavoli – ed era un imperativo – si sarebbero dovuti riempire tutti. Cinque interpreti e una ventina di brani. Una gara canora che avrebbe dovuto avere come fine ultimo, tra le altre cose, la promozione della bella melodia italiana. E poi c’era Nunzio Filogamo, quello che i vicini e i lontani li chiamava tutti amici. I giorni erano già stati stabiliti in maniera perentoria: 29, poi 30 e 31 gennaio, le cosiddette giornate della merla, un triduo laico scelto per voluta antitesi alle passeggiate estive tipiche di una ridente cittadina ligure in provincia di Imperia.
Chi lo avrebbe detto mai ad Amilcare Rambaldi che sarebbe andata poi a finire in mondovisione e con un Teatro accessibile solo a pochi. Il presidente della sottocommissione artistica del Casinò di Sanremo che da poco aveva riaperto le sue attività, nel suo più o meno azzardato tentativo associazionistico di incrementare quanto più possibile un movimento turistico fuori dagli schemi del classico periodo estivo, dando allo stesso tempo continuità annuale al mercato dei fiori della cittadina nella quale egli operava anche e soprattutto in qualità di presidente dell’Associazione Commercianti di Fiori, aveva in mente idee più o meno chiare e fondanti ma solo basate sulla stretta promozione socioeconomica. Nessuno si sarebbe mai sognato di programmare cose a lungo termine. La guerra, la distruzione urbanistica, la riduzione a zero delle attività socioeconomiche, i campi di sterminio liberati solo sei anni prima, le mutilazioni fisiche e ancor più quelle mentali … un’immensa ferita ancora fresca: era il 1951 e la cosa nasceva come un’improvvisazione.
Eppure a Rambaldi mancò solo di vedere il lungo lato glamour di questa sua strana creatura che in questi giorni celebra i suoi 73 anni: sì perché quasi insieme alla televisione che avrebbe inaugurato proprio con Sanremo le sue più lunghe trasmissioni in diretta con la Rai nel gennaio 1954, stava infatti per nascere in quelle giornate italiane non solo qualcosa di veramente storico che per la prima volta dopo tanti anni non era una più una cosa triste, non solo stava per nascere qualcosa che avrebbe delineato da quel momento in poi la vera identità dell’Italia degli eventi, ma soprattutto stava per nascere un fenomeno che nel ridisegnare il volto turistico di un’intera cittadina all’indomani della seconda guerra mondiale, avrebbe di fatto creato dal nulla l’intera l’industria discografica italiana.
A pensarci oggi “vengono i brividi”, per dirla proprio con la canzone vincitrice del 2022: la prima edizione del Festival della Canzone Italiana, quel “Sanremo” su cui l’allora amministrazione comunale, sindaco ed assessore alla cultura in primis, non avrebbero scommesso una lira in più del dovuto, fu esattamente un tentativo culturale come tanti. Perché mai si sarebbe dovuto immaginare che quelle più o meno improvvisate serate all’interno del Salone delle Feste del Casinò Municipale si sarebbero trasformate, per uno strano destino e dunque per i restanti 72 anni a venire, in uno status così tanto temuto, odiato, amato, celebrato, stroncato, reificato, e soprattutto inscindibile – volenti o nolenti – dalla più tipica cultura italiana?
Natale, Sanremo, Pasqua: così reciterebbe il proverbio. Per la cultura italica (che qualcuno chiama tranquillamente sottocultura a patto poi di saper scindere ciò che pure come sottoprodotto è passato sotto i ponti della memoria della musica e del costume da ciò che invece ha marcato le linee del gusto e della bellezza del Made in Italy proprio a partire dagli elegantissimi anni Cinquanta e Sessanta) per la cultura italica, dicevo, Sanremo suona come una scadenza di calendario. Per altri sarà pure associabile con la scadenza di un’odiosa rata di mutuo … ma tant’è. Sanremo, di fatto, marca sempre lo stesso ritornello: nessuno lo guarda, tutti lo guardano. Piace a tutti, non piace a nessuno. Volenti o nolenti.
Fonte di battute pseudosnob che arrivano fino all’ io non ho la televisione in casa, carta d’identità e vetrina dello Stivale a livello planetario o quasi, intramontabile fenomeno di costume e di chiacchiera, fenice dalla cenere, il Festival di Sanremo, questa strana istituzione post bellica capace di creare ali e fazioni perenni e indistruttibili esattamente come accade nelle partite di calcio – volenti o nolenti – è da sempre un identificativo semantico del Belpaese che appare di fatto secondo forse solo alla Pizza e, appunto, al Goal: un prodotto di elegante folklore che nel 1951 nasceva senza essere leggenda e che da sempre se vive lo fa per un suo fedele andamento alla curva dei tempi. E se da un lato Sanremo ha stigmatizzato – con una punta di pubblica rassegnazione – la nostrana “canzonetta” (oggi svanita nelle declinazioni trap) assieme agli altri prodotti italiani a marchio Dop, dal Parmigiano alla Torre di Pisa, dalla Topolino Azzurra agli spaghetti, pure non disdegna di essere nominato dai sociologi quale capitolo imprescindibile della nostra storia. Ed è proprio così che ogni singolo italiano che si rispetti – volente o nolente – segue la sua parabola sanremese: da bambino guarda Sanremo nel lettone col plaid e le coccole di mamma e papà, da adolescente ne diventa un critico sbalestrato eppure attento tra le righe, da giovane se ne distacca completamente, da adulto arriva il più delle volte – e che miracolo – a farci pace.
E non sarebbe Sanremo, volenti o nolenti, senza la storica latitanza da quel palco dei mostri sacri della canzone italiana: da Conte a Mina, da De Gregori a Guccini, da Venditti a De Andrè … e questo proprio perché, prima della canzone, sempre da copione, molto del Festival lo fa il suo buon contorno. E visto ancora che infondo alla fine ci si nausea anche un po’ della solita minestra legata all’utente jazzista o classicista che si diverte a sottolineare quello che notoriamente, ci mancherebbe, tutti sanno e che cioè la musica non è tutta uguale, ecco che le polemiche da salotto, quelle che infondo divertono un po’ tutti, rendono la pietanza più saporita del dovuto: un buon brodo di scontatezze tutto da assaporare nel torpore di giornate invernali che infondo offrono poco altro, un pout-pourri di parole proprio come in questo articolo. Che però verrà letto proprio perché scritto ed assemblato nella settimana di Sanremo.
Ce ne faremo una ragione a quanto pare, libri ed altri hobbies a parte, su questa strana legge: e cioè che sopravviveremo ancora una volta ai sei giorni di calendario che, si sa, poi diventano dieci o al massimo quindici. Sopravviveremo. Ricorderemo con indulgenza a noi stessi di lasciar correre, che sarà mai: Elodie non è Patti Smith, Mengoni non è Leonard Cohen, l’Orchestra non potrà mai suonarti Gerswin o Duke Ellington, ma poi passa. Si tratta dopotutto di usare un po’ di buon senso, di capire che le polemiche sono il buon sale di tutto questo brodo (fossero queste le vere polemiche di un paese civile) e che dopotutto bisogna un po’ difenderle le nostre belle invenzioni, anche se con il tempo esse mostrano, com’è naturale che sia, la ruggine di qualche difetto. Del resto, anche i francesi rispettano il Can Can pur non facendone bandiera culturale assoluta, esattamente come fanno gli indiani con Bollywood o gli americani con la loro Walk of Fame. Quanto all’altro tipo di polemiche, quelle sulla politesse dei costumi e dei codici intesi come obbiettivamente inclusivi e trasversali, (non solo perché cavalcano le mode del momento) lasciamo stare: se le aprissimo, davvero non ne usciremmo più, quindi meglio tacere.
Rimane il fascino di una parabola storica, di una favola leggera, da prendere per quella che è, come dato oggettivo, senza infamia né lode: Sanremo è un termometro dei nostri anni che ci permette di capire chi eravamo, chi siamo e chi saremo, anche se in maniera non del tutto globale. Dai fiori per cui si ringraziava di averli graditi “se pure han fatto male” alla bianca colomba che volava inneggiando alla riannessione di Trieste con la madrepatria, alle mamme del mondo che erano tutte belle, fino al grande blu dipinto di blu. Di acqua ne è passata sotto i ponti. Tanta da mettere “i brividi”, come dicevamo, eppure non tantissima da farci affermare che l’Italia è un paese vecchio, direi tutt’altro.
Sanremo ci ha forse insegnato l’arte di essere eternamente giovani, una trasformazione sincera, altro dal trasformismo: l’arte del sapersi evolvere, dal linguaggio alle melodie, dagli atteggiamenti ai modi di vestire e di pensare. Certo, qualche volta Sanremo ha esagerato e molti “garanti” gli hanno strizzato l’occhio. Ma siamo costretti a perdonarlo davantage, rimanendo comunque sulla soglia dell’attenzione che fa rima con atteggiamento critico e ricerca di dignità dei valori umani, sempre e comunque. Il che, tradotto, non vuol dire accogliere tutto o anche, al contrario, arrivare a calpestare tutto come i fiori sul palco dell’altro ieri.
L’incantesimo, o se vogliamo la febbricola, finirà (sempre come da copione, e sempre volenti o nolenti) di domenica mattina, dentro una tazza di caffè: con buona pace di chi ha vinto, di chi non era andato lì che per vendere, di chi “era meglio Baudo”, di quelli che “e io pago” e di chi magari tornerà a scriverci su l’anno prossimo. Suvvia, è andata anche quest’anno, volenti o nolenti e come da copione. Sanremo, prima di iniziare è già finito e nemmeno ce ne siamo accorti. Torniamo a noi. Il resto, sia per quanto riguarda le canzoncine, sia per quello che, come italiani, attuiamo comunitariamente e personalmente per ogni giorno delle nostre esistenze, lo deciderà il televoto della vita.