Salute&Benessere

“Abitudine”

Racconti veri, che non sono adatti a chiunque, ma non sono un’invenzione: genitori, leggetelo con i vostri figli adolescenti, ma anche voi stessi, perchè ognuno, maschio e , soprattutto, femmina, può essere “oggetto” di questi assassini. Non sempre uccidono il corpo, la mente, però, non ne esce indenne.

Il racconto è di Elena Ramacci

“ABITUDINE”

 

Il sottofondo dei rumori della città la fecero risvegliare.

La testa pesante, un dolore assurdo alla guancia destra, lo stesso occhio destro dolente e semichiuso.

Rimase a terra sdraiata ancora qualche istante poi raccolse le forze per alzarsi ma le gambe non glielo permisero. Si mise seduta e vide graffi e lacerazioni, sulle sue gambe nude, che prendevano forma dalle cosce sino alle ginocchia ed oltre. Niente sembrava rotto ma i suoi arti inferiori opponevano resistenza a qualunque tentativo di rialzarsi.

Si ricordò che era uscita di casa con addosso un paio di pantaloni di lino azzurri, i suoi preferiti. Li aveva trovati in saldo in un Outlet fuori città e quando doveva apparire elegante e professionale ad una riunione in ufficio, puntava sempre su quelli, cambiando di volta in volta la camicetta. Ritrovò i pantaloni poco più lontano da lei, a brandelli e sporchi di asfalto e di sangue. I suoi bei pantaloni!

La borsetta, al suo fianco, era aperta. Anzi, aperta suonava come un eufemismo. Rotta in più punti, conteneva ormai solo dei fazzoletti di carta, un rossetto e l’abbonamento della Metro. L’olio lasciato a terra da qualche auto, l’aveva macchiata in più punti, rovinando quel bel color tabacco tipico delle borse di cuoio. Cellulare e portafoglio erano spariti, tutti i documenti e quei quattro soldi che portava dietro solo per le piccole spese. Le sovvenne improvvisamente che per quei pochi soldi, l’ennesimo schiaffo le aveva chiuso l’occhio.

L’angoscia le provocò allucinazioni, stomaco e testa, ormai, avevano smesso di funzionare e, come individui, avevano conquistato ogni sua forza.

Provò a girarsi sul lato sinistro, si inginocchiò, si fece forza sulle braccia tumefatte e con molta fatica riuscì a rimettersi in piedi. La testa girava come una giostra ed evitò di cadere appoggiandosi al cassonetto dell’immondizia che stava dietro di lei. Alzarsi in piedi e sentire una fitta lancinante al basso ventre fu tutt’uno. Un dolore misto a bruciore che neanche durante il parto del piccolo Luca aveva provato. Si piegò in avanti cercando una posizione antalgica. Non fu un sollievo: il dolore si faceva sempre più acuto. Rimase appoggiata al cassonetto a lungo. Il brusio del traffico del centro era lontano da lei, in quella zona di semi periferia dove uffici e capannoni sono il panorama in qualunque punto cardinale. Qualche Bar, chiusi a quell’ora, la fermata dell’autobus vicino ad un piccolo ospedale di periferia frequentato abitualmente da tossici, ubriachi, qualche clandestino e dalle prostitute che trovano un po’ di ristoro alle macchinette del caffè, tra un cliente e l’altro.

Perché l’auto aveva fatto le bizze proprio quella sera? Il parcheggio dell’ufficio era proprio davanti all’ingresso, ben illuminato e controllato dalle telecamere. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto cambiare quella piccola utilitaria, ma i soldi come sempre scarseggiavano: il piccolo Luca aveva bisogno di tutto ed anche con la pensione minima della madre, arrivare a fine mese era sempre un’impresa. Era un’impresa dalla scomparsa di Andrea, rimasto vittima in un cantiere edile mentre, in nero, portava a casa un discreto stipendio per la famiglia. Il fatto di essere in nero aveva solo fatto nascere inchieste, denunce ed il dimenticatoio da parte delle Leggi e della gente fecero il resto. Non aveva fatto in tempo a veder nascere Luca, due mesi prima aveva lasciato questo mondo, tutte le speranze e tutti i sogni dei suoi trent’anni!

Cento metri. La distanza della scorciatoia tra la fermata dell’autobus e l’ufficio. Stradina frequentata di giorno da operai, impiegati e corrieri. Dopo il tramonto e la chiusura delle attività quel tratto di strada diventava quasi fantasma, buio e desolante.

Roberta pensava che in meno di cinque minuti sarebbe arrivata in ufficio anche se i sandaletti avevano qualche centimetro di tacco e così fu. Il dramma invece l’aspettava all’uscita, al ritorno a casa.

Camminava a passo abbastanza spedito verso la fermata l’autobus, voleva tornare presto per vedere Luca prima che andasse a nanna, il giorno dopo c’era scuola ed era già a metà del primo mese in prima elementare. Il rito del pigiamino con i pupazzetti, un po’ di latte caldo e cioccolato, la favoletta della buonanotte e poi sotto le coperte non prima di aver detto le preghierine per il papà diventato Angelo Custode.

Pensava a tutto questo quando sentì un calcio devastante alla caviglia sinistra. Perse l’equilibrio e quelle mani che l’avevano afferrata non erano mani in suo soccorso…

Odore stomachevole di vino e tabacco, sudore ristagnante da giorni e mani pesanti che le massacravano il viso e pugni allo stomaco. Svenne dal dolore ma quando riprese una confusa conoscenza sentì con ribrezzo quello che le stava accadendo. Un altro pugno la fece cadere nuovamente tramortita.

Un sandalo le era rimasto al piede destro. Il piede sinistro, scalzo e gonfio. Qualcosa in bocca si muoveva, ma quel molare niente aveva della caramella, le fluttuava tra lingua e palato. Anche la gola era gonfia. Si ricordò le mani di lui intorno al collo per non farla urlare, mentre le biascicava qualche minaccia incomprensibile.

Raccolse i pantaloni, piegandoli con una certa cura e se li mise sotto il braccio. Poi raccolse l’altro sandalo a cui si era spezzato il tacco di legno. Si rattristò molto, erano un regalo della madre e sapeva la fatica che aveva fatto per mettere da parte i soldi per regalarglieli. Ora stava dritta in piedi, con il dolore al basso ventre costante e fastidioso. Sistemò la tunica di cotone, strappata sul davanti, come meglio poteva e nascondendo le parti intime, anche se violate, dallo sguardo altrui. Zoppicando, con i pantaloni e la borsetta sotto il braccio ed il sandalo in mano, si avviò verso il piccolo ospedale a fianco della Fermata dell’autobus.

Camminava radente il muro, cercando di nascondersi anche dalla sua ombra, la notte di quasi fine settembre era ancora luminosa. Ogni tanto si tirava giù la tunica per coprirsi le parti che camminando, si scoprivano. Non incontrava alcuno sul suo cammino: la via più solitaria di quella città era toccata a lei. Solo un gatto le sbarrò la strada facendola sobbalzare dallo spavento. Un randagio, di vecchio corso, voleva comunicarle che quella zona era di suo dominio. Il pelo nero e bianco, sporco di polvere e qualche cicatrice sul cranio, gli conferivano un aspetto truce. Si guardarono entrambi poi un flebile “miao” emesso dal gatto, tranquillizzò Roberta: quel micio non aveva intenzioni cattive ed in quel momento, in quel tempo esatto, era lui la razza superiore.

Barcollando e fermandosi ogni tanto, cercava di limitare il dolore al ventre ed al sangue che aveva ripreso copioso a scendere. Il sangue sul viso si era raggrumato, creando strani disegni sulla guancia e vicino al contorno della bocca. Ormai era quasi arrivata, vide il pronto soccorso dall’altra parte della strada. Si ricordò la frase di sua nonna che le diceva spesso “Ricordati di essere sempre in ordine quando vai a casa di qualcuno. Un vestito semplice ed un filo di rossetto, faranno di te una signora, sempre!” Prese la borsetta da sotto il braccio, estrasse il rossetto e con la mano tremante cercò di disegnare a memoria le sue labbra. Labbra tumefatte poco si prestavano al trucco, ma lei, anche se dolevano, lo fece ugualmente. Si sistemò in qualche modo i capelli: toccandosi la testa, sentiva dolore e tumefazioni. Pure una ciocca le era stata strappata. Imperterrita proseguì a sistemarsi come meglio poteva ed infine attraversò la strada.

Dentro il piccolo pronto soccorso, tra gli astanti c’erano tre o quattro ragazzotti appena adolescenti che per uno stupido motivo se le erano suonate di santa ragione ed ora cercavano di spiegare ai Vigili chi avesse ragione. Una coppia di vecchietti, che più di un aiuto sanitario avevano bisogno di qualcuno con cui chiacchierare ogni tanto. Un ragazzo con il braccio destro al collo cercava di capire come avesse fatto a cadere in modo così idiota dal monopattino. Due prostitute, giovani, straniere che parlavano fittamente tra un sorso e l’altro del caffè mentre l’infermiera alla Reception registrava noiosamente e con routine tutti i dati degli astanti.

Appena si aprirono le porte automatiche del piccolo posto di soccorso, Roberta entrò traballando. Tutti gli occhi si posarono su di lei, la quale spinta da una dignità che non aveva perso, cercò di schiarirsi la voce e poi posando la borsetta sul bancone disse con voce tremula “Buonasera…ho subito uno stupro” e, finalmente, svenne. Questa volta per la fatica di essersi ritrovata come persona.

L’infermiera accorse subito a fianco della ragazza, chiedendo ai due Vigili Urbani presenti di prendere la barella. La caricarono sopra, con delicatezza e pudore, soprattutto i due uomini che volsero lo sguardo altrove mentre la tunica apriva ai loro occhi l’obbrobrio subito da quella creatura.

Il silenzio sceso nella saletta sapeva di orrore e tristezza. Qualcuno si vergognò di essere un uomo, altri immaginarono la mamma, la sorella o la fidanzatina al posto di Roberta e sentirono un profondo rancore e voglia di vendetta crescere nell’animo. Le due ragazze di vita, ricordarono i loro esordi in quella professione e piansero lacrime amare, per sé stesse e per la ragazza. Solo l’infermiera sembrava non manifestare rabbia: non era insensibile, ma la sua era “solo” una dolorosa abitudine.

 

 

 

 

 

 

 

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