Con quella faccia un po’ così
Quell’espressione un po’ così
Che abbiamo noi prima di andare a Genova
E ben sicuri mai non siamo
Che quel posto dove andiamo
Non c’inghiotta non torniamo più.
In Piazza De Ferrari, con il sole allo zenith rifratto dai luminosi diamanti inanellati nei flussi d’acqua della sua fontana stroboscopica, mi trovai a pensare a Genova. Poi, ospite al Teatro Carlo Felice della perfetta Nicoletta Tassan Solet, ufficio Stampa del coraggioso sovrintendete Claudio Orazi, rividi, in preda alle mie riflessioni, quello stesso palcoscenico di storia e civiltà della Piazza De Ferrari dal terrazzo del bel teatro. Capii che Genova era un vulcano acceso ma che la sua eruzione era impedita dai tanti detriti che si erano depositati nella sua ogiva negli ultimi secoli e, in particolare, negli ultimi due. Quanto basta per sapere dove si sta seduti, ma anche per non stare mai assolutamente tranquilli. Poi, però, ci si rasserena con le tante bellezze. Tra le prime, la programmazione della lirica al Carlo Felice, e in particolare, oggi, Rossini, Il Turco in Italia, libretto di Felice Romani, ultimo spettacolo della stagione 21/22. Crocevia di genovesità la messa in scena, in particolare per com’è impossibile non considerare il Turco, dalle rive di Boccadesse, Nervi e Sampierdarena. Pensiamo che quelle stesse rive suggestionarono un altro che stava “in fondo alla campagna”, Giuseppe Verdi. Il cigno di Busseto, infatti, col suo Simon Boccanegra dona magistrali pennellate alla genovesità. Inoltre, l’opera va in scena tra poche settimane proprio al Teatro Regio della sua quasi natale Parma, con la regia di Valentina Carrasco che per l’occasione, oltre al cast vocale di prim’ordine, si avvale di ballerini e attori, tra cui l’ottima Maria Antonietta Centoducati. Carrasco, un cognome che sa di genovese a sua volta, anche se la sorprendente regista è argentina e il suo ascendente principale sembra derivare da un toponimo andaluso. Ma c’è anche un paese di nome Carasco nell’area genovese: tutto parrebbe tornare… Torniamo invece al Turco del Carlo Felice. Pregevole messinscena, adorabili le scenografie del grande Lele Luzzati e la regia di Italo Nunziata. Ottimo il cast delle voci provenienti dalla scuola di Francesco Meli, che in queste ore è svettato nei panni di Alfredo nella Traviata zeffirelliana dell’Arena di Verona 2022.
Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna
E abbiamo il sole in piazza rare volte
E il resto è pioggia che ci bagna
Genova dicevo è un’idea come un’altra…
Se la mia impressione era stata così forte, da buon sociologo, doveva essere impressione diffusa. Ho visto infatti la capitale ligure in tanti episodi della mia già lunga vita, ove tempo e spazio si miscelano nell’intensità della memoria. A cicli, ho visto Genova con occhi da bambino, da parente, da esperto d’industria, da esperto di amministrazione locale e pubblica, da critico operistico, da flaneur, da viaggiatore, da Savona e il suo vicino Ponente, da Sanremo e il suo lontano Ponente, da Portofino e il suo vicino Levante, da La Spezia e il suo lontano Levante, da Carloforte in Sardegna, da Tursi in Lucania, da Amsterdam, Anversa, Buenos Aires e New York. Poi, dal bellissimo palcoscenico del Carlo Felice, e ancora con gli occhi di Camillo Sbarbaro, dei miei cugini, di Cristoforo Colombo… Poi dei proprietari di quei palazzi di assurda bellezza, famiglie ancora importanti, e di quelle donne che, dall’Appennino che fa da spalle, vi andavano a servizio. E poi della sua cucina, di Zeffirino, del Gran Gotto, dell’Osteria del Bai…
Eppur parenti siamo un po’ di quella gente che c’è lì
Che in fondo in fondo è come noi selvatica
Ma che paura che ci fa quel mare scuro
Che si muove anche di notte
Non sta fermo mai.
Un vulcano giacente. La sensazione di questa città non lascia tranquilli. È come se Genova pretendesse tacitamente di essere sempre La Superba, sotto la minaccia di una eruzione distruttiva. Quel mare scuro… non è l’azzurrità del mare di Venezia, l’Adriatico che prelude sempre maternamente al liquido amniotico della sacca germinale della laguna per la Serenissima. A differenza di Venezia, il mar Ligure è ambiente di pericolo continuo, e di aggressione. E Genova stringe i denti, le forti spalle sull’Appennino, e la testa come la Lanterna a guardare il più possibile in là per difendersi, caparbiamente e, appena possibile, attaccare. Ora, urla al mondo il suo metà ‘500 metà ‘600, secolo d’oro forse più di quello di Amsterdam, e reclama a viva voce ventriloqua, soffocata, un diritto di ascolto da parte del mondo globale. Lo stesso, in fondo, che ha contribuito vigorosamente a creare lei stessa, con la sua difesa, le sue navi, i suoi navigatori, la sua finanza e la sua arte, lo stesso mondo che oggi sembra (sembra soltanto…) fatto di masse cinesi, migrazioni e di atomiche, nonché del web e della vita glocal e lobal. La dimostrazione? È nella stupenda mostra alle Scuderie del Quirinale di Roma, “Superbarocco. Arte a Genova da Rubens a Magnasco”.
Ma quella faccia un po’ così
Quell’espressione un po’ così
Che abbiamo noi mentre guardiamo Genova
Ed ogni volta l’annusiamo
Circospetti ci muoviamo
Un po’ randagi ci sentiamo noi.
Sì, perché di fronte a tanto riscoperto splendore, davvero ci si deve muovere circospetti, per non fare gaffe, tipo: ma cosa sarà mai questo mezzo seicento genovese… E argomentare con “Quali accrocchi politici è riuscito a combinare il sindaco Bucci per avere una eco così gigantesca per il Barocco del suo bacino elettorale?” Se fosse vero, e in tutta sincerità non so cos’abbia fatto davvero il sindaco di Genova per questa bellissima mostra, beh, forse io, se fossi genovese… Ohibò, lo voterei! Ma lo stesso farei se il nome del promotore di siffatta esposizione fosse quello del governatore della Liguria Toti.
Dunque allora, perché il barocco genovese a Roma? La risposta è più che sorprendente: infatti non è stata Roma a volerlo. Il mondo intero si era impegnato nella rivalutazione della gigantesca, microscopica Genova. Washington addirittura, a dimostrare che il locale non è nemico del globale: la città emblema politico dell’Occidente moderno aveva stretto un patto. Ma con chi? Col Ministero della Cultura italiano? Non solo, c’è dell’altro… Troppo intelligente, la manovra. Qui ci fu un intervento d’alto livello! Sospetto S. Giorgio in persona, cioè un santo. Sta di fatto che, però, nemmeno i santi oggi possono più quanto nel passato, e i segreti dei loro miracoli sono passati ai detector, che quelli degli aeroporti non son nulla… E allora ecco, con la pandemia, che la rinascita di Genova nel mainstream subisce un brusco halt. La mostra meravigliosa naufraga in America, e rimane, della celebrazione globale, solo la ormai ipertrofica branca italiana, nel supremo contenitore romano di piazza del Quirinale. Che farebbe bella anche una mostra di scatolette di tonno usate, per quanto lì si è concentrata l’italica magia.
Domandarsi perché il Barocco genovese in un contenitore come quello è già farsi una domanda intelligente. La mostra ha soddisfatto tutti, e dico proprio tutti, i visitatori, anche quelli più “difficili” che sono quelli troppo o troppo poco colti. Perché dalle Scuderie del Quirinale passano le icone del mondo culturale contemporaneo e, con tutto il rispetto, solo Washington in successione poteva spiegare ragionevolmente quella presenza aliena, “solo” genovese, a due passi dal Palazzo del Papa-Re, oggi sede italiana del mondo globalizzato con presidenti della Repubblica di gradimento anche altrove.
Coraggio averla mantenuta, la mostra Superbarocco: per fortuna capita che S. Giorgio ogni tanto le suoni al drago. E si genera un effetto di sorpresa enorme… Un grandissimo rigurgito di orgoglio genovese, italico, europeo, occidentale e umano. A guida genovese.
Perché la mostra è davvero bellissima. Una parata di bellezza di tutte le arti figurative che ci danno il senso della volontaria, disperata grandezza di una città: una comunità che, sui successi dei precedenti secoli marinari, ci prova con ipotesi di salto su scala continentale, ma deve cedere alla sfortuna e alla superiore forza dei suoi vicini. Peste a metà 1600 e pochi lustri dopo il bombardamento dal mare da parte della flotta francese, la porta a più miti consigli. Non sappiamo di cosa ci ha privato la distruzione di quasi metà della città, dopo che Rubens aveva lasciato il suo messaggio di classe pittorica nei suoi sontuosi palazzi… Ma quello che ci resta è abbastanza per sbalordire.
La baia, figlia di luce e di follia
Foschia pesci africa sono nausea e fantasia
E intanto nell’ombra dei loro armadi
Tengono lini e vecchie lavande.
Certo il taglio della sopraelevata separa urbanisticamente la terra dal mare e, come una ghigliottina, toglie a Genova il rapporto tra le spalle appenniniche e la sua testa protesa in mare, con gli occhi luminosi del suo faro-simbolo, la Lanterna. E così i grandi segni della sua gloria marinara: il porto, l’acquario e il bellissimo Museo del Mare restano di là, e la città di qua. C’è sofferenza. Ma chissà mai che in un futuro non si trovi una soluzione a questo taglio, così opportuno sul piano logistico e così incisivo sul cuore. Intanto, però, dal tetto di Galata, il Museo del Mare, ci si gode l’assurdo. E rimango rapito dai panni stesi alle finestre, “lini”, di là, nei i palazzi della città, lì a ridosso del litorale portuale.
L’organismo complesso della affascinante città di Colombo, continua imperterrita il suo lavoro digestivo di arte e cultura, ed ecco il giovane soprano Irene Celle, da annoverare subito (vedrete che non mi sbaglio) tra le piccole grandi glorie genovesi. Per raggiungere la giovane vetta vocale dell’arte panica operistica, solo a Genova si scende. Perché, abbarbicati alle pendici dei monti che mostrano i denti al mare, molti caparbi palazzi genovesi nascono insieme verso l’alto e verso il basso. Ed è verso il basso che si raggiunge la casa della cantante, promessa della lirica italiana già in parte onorata.
Quale sensazione proviamo “noi, che stiamo in fondo alla campagna”, come scrive l’astigiano Paolo Conte, in questa celeberrima canzone, se per uscire da casa di amici si sale e non si scende? Absurdum januensis… Inutile riflettere! “Lei”, La Superba, non ci lascia tranquilli.
Lasciaci tornare ai nostri temporali…
Genova, hai i giorni tutti uguali.
In un’immobile campagna
Con la pioggia che ci bagna
E i gamberoni rossi sono un sogno
E il sole è un lampo giallo al parabris
Ed è seguendo la strada dei genovesi verso la pianura padana che giungiamo a Ponte dell’Olio, avamposto commerciale della Superba sul torrente Nure. Ponte dell’Olio sulle prime colline piacentine è così chiamato per via dello storico mercato dell’olio di oliva, proveniente dalla Liguria e lì portato dai mercanti genovesi. Proprio loro, i più coraggiosi, quelli che si spingevano più in là possibile per fare avere il prezioso alimento al grande e ricco bacino della piana del Po. Più ci si avvicinava ad essa, più si vinceva la concorrenza e, ci mancherebbe, i genovesi sapevano rischiare. Ed è pochi chilometri sopra il celebre ponte, che si sviluppa la prima edizione dell’“InRiva Festival”, ospitato all’interno del bel castello di Riva (del torrente Nure), oggi proprietà del giornalista e intellettuale Sebastiano Grasso. Lui l’ha voluto con una prima programmazione d’eccezione, tra cui spiccano una versione narrata del Rigoletto, con le principali arie cantate nonché in apertura del festival “Ouverture. Isadora Duncan International Institute di New York”, Direzione artistica di Jeanne Bresciani e la promozione di Sophie Eustache, ambasciatrice in Italia dell’Istituto americano. E chi ci troviamo, in un bel concetto di Rigoletto? Sempre lei, Irene Celle. Dopo le glorie ottenute all’Accademia verdiana e in attesa dei successi a quella rossiniana di Pesaro, è lei nel ruolo di Gilda.
Con quella faccia un po’ così
Quell’espressione un po’ così
Che abbiamo noi che abbiamo visto Genova…
Paolo Conte, rappresentante ed epigone della scuola cantautoriale genovese, apre un discorso, non lo chiude. E noi, che abbiamo visto Genova, ci torneremo con sempre maggiore convinzione e curiosità, ben sapendo che questa città ha molto da dire, da suggerire, da mostrare all’umanità e che il suo tempo sembra ricominciare, con le sue vele spinte dalla bellezza e dalla cultura.