In diverse occasioni per il sistema politico italiano il mese di giugno ha rappresentato momenti di appuntamento elettorale dall’esito “critico” , come nel caso del 7 giugno 1953 quando fu respinto il progetto democristiano di legge elettorale con premio di maggioranza o il 10 giugno 1979 allorquando si votò per la prima volta per i rappresentanti dell’Italia al Parlamento Europeo facendo registrare una evidente incrinatura nella partecipazione al voto (già segnalata nei referendum del giugno 1978) che fino ad allora aveva registrato in ogni pur diverso frangente elettorale lo stesso intensissimo dato di presenza alle urne.
E’ stato nell’arco di dodici mesi tra il giugno 1975 e il giugno 1976 che si consumò il momento storico della massima espansione del sistema dei partiti nella versione egemone del “partito a integrazione di massa” e dell’inizio dell’irreversibile declino dello stesso modello: declino che poi, concomitanti diverse cause, avrebbe portato nel giro di un quindicennio ad un drastico mutamento nella struttura politica del nostro paese: mutamento poi suffragato dalla trasformazione della formula elettorale sia al riguardo delle elezioni amministrative (con l’elezione diretta del Sindaco) sia rispetto le elezioni politiche con l’adozione di un sistema misto a liste bloccate (per il 75% fondato su collegi uninominali e per il 25% in quota proporzionale).
15 giugno 1975 – 20 giugno 1976: due date da segnare con un circolo rosso nella nostra memoria.
15 giugno 1975: si svolgono le elezioni nelle 15 regioni a statuto ordinario, nelle province e nella gran parte dei comuni (allora le “sfasature” nelle date di scadenza dei diversi Consigli erano molto rare).
Elettrici ed elettori erano chiamati per la seconda volta alle urne per le elezioni regionali (la prima occasione era stata quella del 7 giugno 1970).
Si trattò di un vero e proprio terremoto: non a caso l’Unità titolò (e a ragione) “L’Italia è cambiata davvero”.
Il PCI fece registrare un’avanzata impetuosa : con una partecipazione al voto superiore al 90% i comunisti conquistarono la maggioranza in Piemonte (33,91%), Liguria (38.70%), Emilia Romagna (48,39%), Toscana (46.47%), Umbria (46.13%), Marche (36,88%), Lazio (33,52%), oltre a risultati eclatanti in tutte le principali città sia del centro – nord sia al Sud (mancavano all’appello Genova e Roma dove le elezioni comunali si sarebbero svolte nel 1976).
Vale la pena ricordare, almeno sommariamente, il quadro dell’epoca: il PCI aveva avanzato, tramite l’elaborazione del suo segretario Enrico Berlinguer, la proposta di “compromesso storico” che partiva dalla constatazione che, nel quadro della rigida divisione in blocchi attorno alle due superpotenze, le sinistre non potessero governare con il 51% ma servisse una base di consenso molto più ampia realizzabile appunto soltanto attraverso un’operazione di compromesso realizzata dalle grandi forze di natura popolare.
La DC, principale interlocutrice della proposta, aveva risposto nella vaghezza morotea della “terza fase” mentre, proprio all’indomani del voto del 15 giugno 1975, la borghesia italiana ne aveva invece riaffermato in maniera molto pesante, da destra, la funzione “pivotale”.
In quel 15 giugno il PCI aveva raccolto i frutti non tanto della proposta di compromesso storico ma soprattutto di un lungo processo di modernizzazione della società italiana, avviato con il “boom economico” e la formazione dei governi di centro – sinistra: processo di modernizzazione che aveva suscitato pesanti reazioni esplicitatesi con l’affermazione del terrorismo stragista e golpista di matrice fascista e alimentato dai servizi segreti e contrastato, da sinistra, da impazienze rivoluzionarie che avevano anche dato origine a fenomeni di lotta armata coinvolgenti anche settori legati a una visione pauperistica dell’impegno sociale cattolico.
Quel processo di avanzamento politico e sociale delle grandi masse aveva trovato due punti di saldatura: quello dell’esponenziale crescita del peso sindacale confederale all’interno di una struttura economica ancora imperniata sulle grandi concentrazioni industriali in particolare a Partecipazione Statale e nel settore manifatturiero di beni di consumo (con l’egemonia dell’auto) con un grande peso della speculazione edilizia e quello della nuova stagione dei diritti sociali che aveva trovato un vero e proprio “momento magico” il 13 maggio 1974 con l’esito del referendum che approvava la legge sul divorzio, passata qualche anno prima in Parlamento. L’esito elettorale del 13 maggio 1974 era stato ottenuto principalmente per il distacco di parte delle masse cattoliche affrancate dalle indicazioni della Chiesa e, di conseguenza, della DC.
L’esito del 15 giugno 1975 fornì però un’altra indicazione che risultò in allora considerata secondaria: nelle grandi città, allo scopo di arrivare a formare giunte di sinistra per le quali il PSI (che alle elezioni regionali e comunali aveva conservato una quota rilevante di voti) manteneva un’opzione privilegiata superando il cosiddetto “preambolo Forlani”, si verificarono spostamenti verso sinistra da parte di settori dell’area socialdemocratica e perfino liberale: accadde a Torino e a Milano oltre in altri comuni di grande importanza e sarebbe poi accaduto a Genova l’anno successivo. Anche a Napoli si formò, per la prima volta, una giunta di sinistra.
Questi due elementi: lo smottamento dell’area cattolica con la crescita di un forte movimento di dissenso e i fermenti nell’area laica non causarono alcuna flessione dall’impostazione egemonica portata da avanti dal PCI con il compromesso storico e dalla DC sulla base dell’unità politica dei cattolici e della diga anticomunista (anzi, dal punto di vista della diga anticomunista, ampi settori del padronato e della rendita rafforzarono, come vedremo, la loro convinzione di sostegno al partito democristiano).
L’esito, inevitabile, del risultato elettorale del 15 giugno 1975 fu rappresentato dalle elezioni legislative generali anticipate: “il casus belli” fu dovuto ad un articolo del segretario socialista De Martino pubblicato sull’Avanti il 31 dicembre 1975, con il quale si dichiarava il rifiuto dei socialisti a partecipare, in futuro, ad un governo che non comprendesse il PCI (in quel momento era in carica il governo Moro – La Malfa imperniato sull’alleanza tra DC e PRI poi sostituito a febbraio 1976 da un altro governo Moro ma composto da un monocolore democristiano in una fase di vuoto del centro – sinistra organico).
L’articolo di De Martino aveva però rappresentato soltanto una sorta di “escamotage”: in realtà era evidente come fosse dominante il tema del deficit di rappresentanza del Parlamento rispetto al Paese ben evidenziato, appunto, dall’esito delle elezioni regionali amministrative.
Si arrivò così al voto anticipato, fissato al 20 giugno 1976 senza che nessuna delle principali forze politiche delineasse un’alternativa al quadro fissato, da un lato dal “compromesso storico” e dall’altro delle necessità di far fronte attorno alla DC come “diga anticomunista” (una posizione questa emblematizzata dalla frase di un intellettuale inorganico come Indro Montanelli che, dalle colonne del “Giornale” proclamò: “Turatevi il naso e votate DC”).
Il risultato di quella tornata elettorale rappresentò il massimo dell’estensione del sistema dei partiti nella storia repubblicana e l’esaltazione dello schema del “bipolarismo imperfetto” coniato a suo tempo da Giorgio Galli.
Rileggere i dati, a distanza di tanti anni e nella situazione attuale, fa ancora impressione: la partecipazione al voto raggiunse il 93,39%, su di un totale di 36.707.578 voti validi la DC ne totalizzò 14.209.519 e il PCI 12.614.650 per un totale di 26.824.159 ( con una percentuale del 66,35% sul totale degli aventi diritto che assommava a 40.426.658 unità e del 73,07% sul totale dei voti validi).
Il PSI si fermò a 3.540. 309 mentre i partiti laici risultarono prosciugati dall’appello montanelliano (2.700.000 voti circa tra PSDI, PRI, PLI con quest’ultimo ridotto ai limiti del quorum). Unico segnale in controtendenza rispetto al blocco della situazione il superamento della soglia minima per la presenza in Parlamento del cartello di Democrazia Proletaria (comprendente i principali gruppi residui della ventata sessantottesca e del dissenso comunista: Pdup, AO, MLS, Lotta Continua) e del Partito Radicale arrivato per un soffio alla meta dei 4 seggi.
Nelle settimane successive il dibattito risultò soffocato dalla prospettiva dell’incontro tra DC e PCI. A differenza del 1975 non si raccolsero segnali d’alternativa, anzi dall’area laico – socialista partì in allora un movimento verso quel terzaforzismo che alla fine sarebbe sfociato nel pentapartito: fu allora che il sistema dei partiti a integrazione di massa cominciò ad incrinarsi mentre l’idea del “governo della sinistra” presentata (con forti differenziazioni interne) dal Pdup all’interno del cartello di DP risultò elaborata in misura del tutto insufficiente. L’esito di quella stagione fu un monocolore democristiano guidato da Andreotti con alle spalle l’ombra pesante della massoneria segreta e con l’astensione di tutti gli altri partiti, tranne il MSI (che aveva mantenuto una quota superiore ai 2 milioni di voti e che sarebbe stato poi sottoposto a una duplice pressione: golpista e stragista da destra e andreottiana per un ingresso nell’area di governo che avrebbe poi provocato l’effimera scissione di Democrazia Nazionale), DP e PR.
Ben prima del rapimento e dell’uccisione di Moro il “compromesso storico” era stato così declinato in una forma spuria di “solidarietà nazionale” al di là della quale non si intravedeva alcuna ipotesi alternativa: si inaugurò la politica economica dei “due tempi” adottata dal sindacato con la cosiddetta “Linea dell’EUR” e anche verso il fermento portato avanti dagli Enti Locali il governo rispose con un decreto di austerità firmato dal ministro Stammati (iscritto alla P2).
Sicuramente furono realizzati alcuni importanti punti di riforma: equo canone, servizio sanitario nazionale, legge 285 sulla disoccupazione, la legge 194 sull’aborto che registrò il formarsi di una maggioranza di sinistra e laica convergendo PSI, PLI, PSDI, PCI, PRI, PR e Pdup ma si trattò di un episodio isolato, pur molto importante senza che si prefigurasse una possibile ipotesi di governo alternativo.
E’ nota a tutti la situazione che si verificò al momento del rapimento Moro, avvenuto in un momento di particolare irrigidimento della situazione internazionale: il PCI e il PSI si apprestavano a entrare nella maggioranza che sosteneva il monocolore Andreotti superando il quadro delle “astensioni” ma la DC aveva già replicato conservando intatto il quadro dei ministri in carica senza fornire alcun segnale di apertura; al momento della strage di via Fani il PCI stava per dichiarare il proprio distacco dalla maggioranza ma il precipitare della situazione costrinse i dirigenti comunisti e quelli socialisti a votare la fiducia.
Il sistema imperniato sui grandi partiti di massa si era però già incrinato al di là dell’esito drammatico dei 55 giorni che seguirono , corso dei quali si determinò una “faglia” politica di grande importanza per gli anni a venire: quella tra “fermezza” e “trattativa” attraverso la quale il nuovo segretario del PSI Craxi introdusse una dinamica sistemica affatto diversa da quella precedente.
A ricostruire un disegno di equilibrio non servì neppure l’elezione di Pertini, principale riferimento morale del “partito della fermezza”, a Presidente della Repubblica.
Concludo con alcune cifre che dimostrarono subito che quella crisi verticale era iniziata e procedeva spedita.
L’11 giugno 1978 si svolsero due referendum abrogativi, promossi dal PR, riguardanti le leggi speciali di ordine pubblico varate a suo tempo dal ministro repubblicano della giustizia Oronzo Reale e la legge sul finanziamento pubblico dei partiti approvata nel 1974 per fronteggiare lo scandalo dei petroli scoperto dai “pretori d’assalto” di Genova (Sansa, Almerighi, Brusco) e voluta soprattutto dal segretario repubblicano La Malfa.
Per entrambi i quesiti la stragrande maggioranza delle forze politiche aveva chiesto a elettrici ed elettori di votare NO allo scopo di mantenere inalterato il quadro legislativo esistente.
Prima di tutto si registrò un forte calo nell’afflusso alle urne : andarono al voto poco meno di 33.500.000 unità, con una flessione di circa 7.000.000 di elettrici ed elettori rispetto al 20 giugno 1976 con una percentuale complessiva dell’81,19%. Si tenga conto che nell’occasione del referendum sul divorzio del 1974 la percentuale dei votanti era stata dell’87,72%.
In secondo luogo si registrò una fortissima disaffezione rispetto all’indicazione del voto data dai maggiori partiti.
Nel computo dei voti riguardanti il referendum sulle leggi di ordine pubblico ben 7.400.619 votanti si pronunciarono per l’abrogazione della legge mentre soltanto il cartello di DP e il PR si erano pronunciati in quella direzione (cioè più o meno 1.000.000 di voti raccolti il 20 giugno 1976).
Ancor più netto il presentarsi di una vasta area contraria al finanziamento pubblico per il quale era favorevole l’intera area della maggioranza salvo il PLI: la legge si salvò a stento perché ben 13,691.900 elettrici ed elettori si pronunciarono per la sua abolizione.
Segnali di crisi del sistema si erano già avuti nel corso di alcune tornate amministrative svolte tra il 1977 e il 1978 (celebre quella di Castellamare di Stabia: l’esito di quelle elezioni amministrative determinò il coniarsi del termine giornalistico “sindrome di Castellamare” per indicare, con preciso riferimento al PCI, l’espandersi nel partito di una quasi rassegnata convinzione negativa circa l’esito elettorale della fase di solidarietà nazionale: nel caso, infatti, sembrava essersi davvero esaurita una “spinta propulsiva”).
Si era avviata così la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in “antipolitica” nel corso della cui fase di espansione si svilupparono via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in “partiti pigliatutto” poi in partiti “azienda” o “personali” fino all’approdo alla democrazia recitativa all’interno delle cui coordinate ci stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento (inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all’esecutivo e al condizionamento del peso delle lobbies mentre si è radicalmente modificato il fenomeno della cessione di sovranità dello “Stato – Nazione”.
Al frantumarsi della società in isole corporative e nell’egemonia assunta dal fenomeno dell’individualismo competitivo i nuovi partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose per la democrazia come quelle rappresentate dalla riforma costituzionale per fortuna bocciata dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016 e quelle delle vere e proprie “avventure dell’effimero” rappresentate dalla meteore M5S e Lega nella versione Salvini .
Il fenomeno del populismo senza principi ha attraversato e sta ancora attraversando l’intero arco istituzionale.
Naturalmente al formarsi di questo stato di cose hanno concorso una molteplicità di fattori che in questa sede l’economia del discorso non ci consente di analizzare in profondità e che, comunque, sono stati e sono oggetto di studi approfonditi espressi in una quantità di pubblicazioni cui si può utilmente rimandare.
Lo scopo di questa nota era soltanto quella di ricordare la ricorrenza ciclica di quei mesi di giugno: quello del 1975, del 1976 e anche quello del 1978.
Un arco di tempo in cui si consumò la storia dell’egemonia dei grandi partiti di massa che in Italia aveva avviato il suo percorso con la fase post-resistenziale (durante la quale era stata stritolata, con la sconfitta del Partito d’Azione, l’idea di una forma politica “d’opinione” che avrebbe potuto essere espressa da quella che poi sarebbe stata definita “borghesia riflessiva” e che in quel momento fu risucchiata a destra dalla retorica anticomunista) e l’esito delle elezioni per l’Assemblea costituente del 2 giugno 1946, quando i tre grandi partiti (DC, PSIUP, PCI) avevano raggiunto oltre il 70% dei voti validi, mentre la partecipazione aveva sfiorato il 90% (89,08%) dimostrando un fortissimo radicamento sociale che poi il PCI avrebbe condotto a suo vantaggio nel riequilibrio tra i due partiti verificatosi con la formazione del Fronte Popolare sconfitto dalla DC il 18 aprile 1948.