Al Museo del 900 di Milano, fino al 27 marzo 2022, veramente definitiva semanticamente la mostra di Mario Sironi, anima inquieta, tragica e formalmente bizzarra del XX secolo italiano. Spugna del suo tempo e grande espressivo dell’attonito e dello spaesamento, la sua vita è costellata di abbandoni: la Sardegna, l’ingegneria, la salute nervosa, la moglie, il fascismo, la morte della figlia. La sua arte ne è intrisa. Si vede, nella bellissima antologica di Milano, Sironi annaspare psicologicamente fase per fase, e resta il dubbio se la sua fase più felice, quella dell’adesione a un fascismo vittorioso, sia sotto evidenziata per motivi logistici (le più belle opere del periodo sono infatti nella collezione permanente del Museo del 900, a cui il percorso espositivo rimanda) o se invece lo spirito dell’arte abbia suggerito la sottolineatura melanconica e frustrata del suo messaggio artistico. Sironi è stato un mito della generazione tra le due guerre, cresciuta nel secondo dopoguerra con le nostalgie di un’arte di regime tutta da riconsiderare esteticamente, col percorso interrotto dalla nuova Italia repubblicana nata dalla Resistenza. Dobbiamo trovare il coraggio, e la mostra di Sironi ne è un esempio, di essere ancora più decisi nel ritessere le fila dell’arte tra le due guerre e di avvalerci fiduciosi del nostro enorme potenziale di concime italico. La ricerca deve fare lo sforzo di considerare i segni, anche “banditi”, quali condizioni ormai figurative e non simboli di ideologie vetuste e tecnicamente anacronistiche. In ciò convengo con il serio e coraggioso testo introduttivo della direttrice del Museo del 900, Anna Maria Montaldo, curatrice della mostra insieme a Elena Pontiggia. Il futurismo con le sue derive smorzate, Sironi, Mascagni vanno riveduti nella solida luce del futuro che, oltretutto con la rivoluzione corrente del globantropocene mediatizzato, colora di senso differente ogni cosa del passato. Ecco Montaldo: “Sironi, convinto sostenitore del regime (fascista, n.d.r.), riuscì a conferire allo stesso anima e volto indelebili, modellando una ‘visualizzazione’ dell’ideologia fascista, che per esistere e affermarsi, doveva necessariamente passare attraverso la messa a fuoco di un codice indispensabile alla comunicazione propagandistica e quindi funzionale a galvanizzare le masse popolari”. E ancora: “Questa ulteriore occasione espositiva, innestata sulla scia di una rinnovata sottolineatura del valore dell’artista, suggerisce come sarebbe tempo di esaminarne l’opera attraverso una lettura sottoposta al vaglio dell’analisi più strettamente legata a parametri fissati dalle “leggi dell’arte”, accettando il fatto che la condizione dell’artista di ogni tempo sia sempre stata quella di una maggiore preoccupazione, nel fiancheggiare o meno il potere, a sostenere, esprimere e amplificare il proprio ego individuale”.
Montaldo sottolinea altresì come Mario Sironi non sia accumunabile ai semplici artisti di regime di vari totalitarismi, come nazismo e comunismo sovietico, scandendo la sua differenza anche con l’opposizione esplicita alle leggi razziali del 1938, oltreché con la cifra estetica personale.
Appare, intanto, nel Sironi in mostra, la predilezione per la penombra dei grigi e degli scuri, la importazione di suggestione cubiste e informali, la tentazione materica di certe opere, il gusto per la metafisica e la geometria: tutto ciò attraversa una ricerca informata da una premonizione tragica, che rende l’opera di Sironi anti/patica, quanto lui, contraria alla compartecipazione sentimentale, in un isolamento originario subìto e consapevole dai frequenti paesaggi urbani civili milanesi, città a lui familiarissima.
Questa mostra incondizionata e nuova ideologicamente, dimostra Milano essere ancora una volta vera capitale morale, e riuscire, per rispetto dell’identità culturale meneghina, a superare le barriere ideologiche che hanno oscurato od offuscato ben più di un quarto artistico del XX secolo. Montaldo e Pontiggia riportano con “Mario Sironi. Sintesi e grandiosità” il discorso dell’arte al suo originario respiro creatore e, con la potenza del recupero storico in via di pieno compimento, seminano meritoriamente sull’humus fertilissimo della cultura italiana per nuovi, di certo stupefacenti scenari.