Il processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione è una delle condizioni fondamentali perché la società e il mercato italiani possano beneficiare della rivoluzione digitale a pieno, svecchiando e snellendo procedure e uffici ormai obsoleti. È l’Europa stessa che ce lo chiede con veemenza e che ci invita ad investire parte dei fondi previsti dal PNRR su questa sfida. Già da qualche mese si sono visti i primi passi verso un rinnovo profondo degli enti pubblici.
La transizione digitale è un processo complesso e che investe profondamente diverse componenti di qualsiasi ente o azienda che intende percorrerla. Accanto alle tecnologie 4.0, sono determinanti soprattutto le competenze di manager e operatori che guidano la rivoluzione digitale e ne assicurano l’implementazione con efficacia ed efficienza. Queste ultime due caratteristiche, così inflazionate nei contesti gestionali, portano con sé una grande complessità e una articolata struttura di conoscenze, competenze, abilità ed esperienza sul campo che devono essere opportunamente combinate e fungere da cassetta degli attrezzi per i coraggiosi pionieri della digitalizzazione. Se si considera il contesto della PA in Italia il livello di difficoltà aumenta notevolmente richiedendo anche – o forse soprattutto – capacità gestionali e politico-negoziali di spicco.
Il quadro appare davvero ricco di elementi e per analizzarlo abbiamo intervistato il dott. Marco Carlomagno, laureato in giurisprudenza, economia e sociologia, giornalista pubblicista, segretario generale FLP – Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche, in servizio presso l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e componente del Comitato Unico di Garanzia dell’ente, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del CNEL e dell’Agenzia delle Entrate.
La situazione del personale nella Pubblica Amministrazione in termini di età e competenze è critica agli occhi di molti e richiede interventi. Qual è il suo punto di vista?
Decenni di tagli, di mancato turn over hanno fortemente indebolito le nostre Pubbliche Amministrazioni, sia dal punto di vista numerico che professionale. L’età media ormai si aggira sui 55 anni, con punte che arrivano a 60 in alcuni Ministeri, e la mancata formazione, ridotta a puro adempimento burocratico, quando viene fatta, non è in grado di aggiornare le competenze alle nuove sfide che la digitalizzazione ci impone. Una situazione quindi critica in molti casi, nonostante l’impegno del personale che viene troppo spesso lasciato solo.
A partire dal concorso indetto per i tecnici nelle regioni del Sud, fino ai nuovi concorsi prospettati per il PNRR, si assiste ad una spinta nel potenziamento più che rinnovo delle competenze della PA. Spesso si parla di contratti triennali eventualmente rinnovabili. Le competenze richieste nelle prove sono solo in parte attinenti ai ruoli e solo nel recente concorso indetto dalla regione Emilia-Romagna per figure manageriali si faceva riferimento alla valutazione delle soft skill (group role play, individual role play e BEI). Emergono dunque secondo lei criticità nelle modalità e nella capacità di attrazione della PA?
Come dicevo per decenni è mancata una politica di reclutamento seria e troppo spesso il precariato è stato un modo per aggirare con contratti a tempo determinato i vincoli assunzionali, provocando un fenomeno di difficile gestione, più volte censurato dall’Unione Europea. Il PNRR e i compiti assegnati alle PA per gestire i Piani dovrebbero portare finalmente ad un cambio di paradigma, tornando ad investire in modo organico e programmatico sulle risorse umane. Purtroppo le prime azioni del Governo Draghi in tale direzione sono assolutamente insufficienti. Si continua con la logica dei contratti a termine e, soprattutto, non si risolve il problema dell’ordinamento professionale che ormai è desueto, risalente a più di venti anni fa. In buona sostanza si cercano nuove professionalità, altamente professionalizzate, offrendo loro un contratto a termine e un inquadramento professionale non adeguato, con retribuzioni che non superano i 1.500 euro lordi mensili. Un mix che renderà un flop lo sbandierato piano di assunzioni del Ministro Brunetta. Se a questo aggiungiamo pure un certo dilettantismo nella predisposizione delle prove di esame, affidate a società esterne che evidentemente non avevano nelle loro banche dati quesiti specifici per le professionalità richieste e che hanno predisposto prove generaliste, in molti casi con evidenti errori, il quadro si fa certamente più preoccupante.
Di recente ha discusso in altre interviste le ricadute di questa situazione. Chi sarà a farne le spese?
Bisogna reinternalizzare le procedure di reclutamento coniugando la velocità di espletamento con la specificità delle posizioni richieste. Superare la politica del precariato prevedendo forme di reclutamento che prevedano anche momenti di formazione lavoro dopo la selezione, ma che siano mirate poi al mantenimento di queste professionalità selezionate e formate. Occorre accompagnare tale processo con la riscrittura dell’ordinamento professionale, per dare una giusta collocazione non solo a tali professionalità ma anche a chi in questi anni già era in servizio e ha permesso alle Amministrazioni di funzionare in una situazione di sostanziale abbandono. Se non si interviene in tale direzione a farne le spese sarà il Paese tutto che rischia di non colmare il gap con le altre economie avanzate.
Se l’Europa e la situazione socioeconomica richiedono all’Italia forti cambiamenti soprattutto nel settore pubblico, quali sono gli interventi già posti in essere e quelli che secondo lei dovrebbero essere adottati quanto prima per una transizione digitale delle competenze della PA?In questi anni abbiamo visto situazioni che potremmo definire a macchia di leopardo; qualche grande Amministrazione come l’Agenzia delle Entrate o l’Inps si sono dotate di infrastrutture tecnologiche capaci di delineare un modello mirato alla realizzazione di un’interfaccia diretta con l’utenza e con processi lavorativi tecnologicamente avanzati. Gran parte delle altre Amministrazioni pubbliche invece, spesso anche per le ridotte dimensioni, sono rimaste al passo. Fino ad oggi è mancata una vera cabina di regia, nonostante il proliferare di Enti e Agenzie centralizzate che avrebbero dovuto assicurare la dovuta governance a questo processo, e le best practices, ove realizzate, sono dovute a iniziative da ricondurre direttamente al partner tecnologico. Ritengo che per operare in senso fattuale sulla transizione digitale nelle PA bisogna mettere a fattore comune le linee di azione, investire sulla rete e sulla banda larga, sulle dotazioni, rendendole disponibili in modo diffuso, e soprattutto agire sui processi lavorativi e sui modelli organizzativi. Per molti, transizione digitale significa ancora la mera informatizzazione di atti cartacei, di procedure obsolete e oscure, incomprensibili ai cittadini e foriere di inaccettabili ritardi per le imprese. Inoltre, andranno finalmente realizzate banche dati comuni e interconnesse, che evitino la duplicazione di adempimenti per i fruitori dei servizi. Infine, occorre garantire il decollo del lavoro agile, oggi di nuovo oggetto di un parziale dietro front rispetto alle potenzialità che l’emergenza pandemica aveva comunque evidenziato, in quanto può essere un importante fattore di sviluppo, costringendo le Amministrazioni a modernizzare i processi lavorativi, le capacità di interazione, le dotazioni informatiche e la qualità delle proprie reti, superando gli attuali modelli iper-gerarchici che costituiscono un freno alla transizione digitale.
Vincenzo F. Zeffiri