Il 25 giugno 1991, trent’anni fa, il distacco della Slovenia e della Croazia dalla Jugoslavia aprì una stagione di conflitti armati culminata nella feroce guerra in Bosnia – Erzegovina durata dal 1992 al 1995 e proseguita nel 1999 con l’intervento della Nato in Kosovo a favore della maggioranza albanese contro la Serbia.
Ancora una volta le guerre balcaniche insanguinarono l’Europa dimostrando il permanere di un carico di ferocia tale da far pensare che la Seconda guerra mondiale fosse passata senza rivolgere alla Storia alcun insegnamento.
La crisi della Jugoslavia si era manifestata nella seconda metà degli anni’80, ma era cominciata con la morte di Tito.
Il FMI e la Banca mondiale chiesero a Belgrado il rientro dei debiti accumulati.
Il governo federale pensava fossero 8-10 miliardi di dollari, invece erano circa il doppio, perché anche le singole repubbliche, con l’autonomia concessa dalla Costituzione del 1974, avevano potuto ottenere prestiti.
Vennero introdotte misure di austerità che causarono forti tensioni sociali.
Inoltre le autorità federali erano bloccate dai veti incrociati tra le Repubbliche.
Nella paralisi emerse Slodoban Milosevic, presidente nazionalista della Serbia, deciso a modificare la situazione con la forza: fu lui a imprimere l’impulso per sopprimere l’autonomia delle province del Kosovo e della Vojvodina che riportò sotto il controllo serbo.
In seguito all’impossibilità di un accordo sul futuro del Paese, Slovenia e Croazia dichiararono l’indipendenza il 25 giugno 1991.
Dopo la rottura di Tito con Stalin nel 1948 gli Stati Uniti avevano appoggiato la Jugoslavia in funzione antisovietica, ma questa necessità venne meno al momento dello sfaldamento del blocco guidato dall’URSS.
Anche la Germania tolse il precedente sostegno alla federazione e convinse l’Italia a fare lo stesso.
La Jugoslavia era molto diversa dall’URSS.
Dopo la rottura con Mosca aveva seguito la via di un originale socialismo autogestionario e condotto una politica estera di non allineamento.
Ma restavano notevolissime analogie: il partito comunista unico al potere, la presenza di molte nazionalità divise in repubbliche; la debolezza strutturale dell’economia.
Ciò sottrasse legittimità alla leadership federale, orfana di Tito.
Prevalsero così i nazionalismi, specie quello serbo, che trovò in Milosevic un leader capace di galvanizzare le masse e usarle per una politica aggressiva, da cui derivò lo sfacelo della Jugoslavia.
Ritornò l’orrore nel cuore dell’Europa.
Sarajevo agonizzò nel più lungo assedio del ‘900: 1426 giorni; a Srebenica si scoprì il più grande massacro in Europa dai tempi dei nazisti, oltre 8.000 morti; per la prima volta la Nato compì un’azione di guerra ed eseguì la prima massiccia incursione aerea in Europa dalla Seconda guerra mondiale.
Si ripiombò nelle dinamiche di guerre novecentesche che, almeno nel vecchio Continente, si credevano dimenticate; i lager, i voli umanitari, i caschi blu presi in ostaggio, i giornalisti uccisi, la biblioteca di Sarajevo e il ponte di Mostar distrutti, l’interventismo americano e francese.
Era crollata l’idea, perseguita fin dalla lotta partigiana anti- nazista, della fratellanza tra le nazionalità: le differenze etniche, linguistiche, religiose si erano rivelate impossibili da superare ma nella rottura territoriale della Jugoslavia non è sorta nessuna prospettiva positiva per il futuro e circolano ancora ipotesi di ulteriori frammentazioni con l’Ungheria di Orban che soffia sul fuoco delle nazionalità trovando campo aperto in particolare in Slovenia dove salgono tensioni autoritarie che potrebbero coinvolgere l’intero quadro balcanico.
Si profila ancora l’ipotesi di modificazioni di frontiere (la grande Albania, con l’aggregazione di pezzi di Bosnia e di Macedonia) che non potrebbero portare altro che verso soluzioni militari.
Per questo motivo il ricordo dei 30 anni passati non può rappresentare la celebrazione della ritrovata democrazia ma soltanto un momento di monito su di un tragico passato e un incerto futuro.