Si fa un gran parlare in questo periodo di “Stato d’eccezione” e di Governo di salvezza nazionale, a causa del persistere di una pandemia sempre più diffusiva e contagiosa. E non mancano gli opinion maker che invocano una linea ancor più rigorosa di contrasto al Covid, con ulteriori restrizioni, in nome della tutela della salute pubblica. All’estremo opposto, una parte della classe dirigente, facendosi portavoce di un’imprenditoria in forte sofferenza, invoca la necessità di allentare i lacci che la comprimono, allo scopo di favorire un graduale ritorno alla normalità. Entrambe queste linee di pensiero trascurano però che non tutto può essere regolamentato dall’Autorità Statale. Lo scrivente non intende assolutamente sminuire il ruolo che in una contingenza delicata come questa, giochi l’autorevolezza delle nostre istituzioni e l’algido carisma del nuovo Presidente del Consiglio. Mi limito invece a osservare una sorta di marginalizzazione, nel dibattito pubblico, di un’analisi su quello che dovrebbe essere il ruolo del cittadino, sulla sua condizione e coscienza individuale. Sotto questo profilo, pochi commentatori hanno esaminato l’incidenza della pandemia sulla psiche collettiva, e, viceversa, l’influenza dei comportamenti e delle fragilità dei singoli sull’insistenza di questa iattura.
I due fenomeni, a mio parere, sono profondamente connessi. Perché se da un lato diversi connazionali sono demoralizzati da una “clausura” che perdura ormai da troppo tempo, dall’altro non realizzano che se la pandemia continua a martellare le nostre vite, forse ciò è dovuto al fatto che qualcuno non è stato “cives” sino in fondo.
Si assiste a un’oscillazione tra un istinto gaudente che non vuol darsi per vinto e una certa propensione a un reflusso depressivo, caratterizzato da spiccata staticità. Latita a mio giudizio quel senso di interconnessione tra appartenenti a una medesima collettività, uno spirito di squadra che ci avrebbe probabilmente consentito di uscire da quest’incubo prima di quanto auspicabilmente accadrà.
Noi tutti siamo cittadini e non sudditi: il pensiero moderno ha sottolineato che uno Stato non può reggersi solo su una cieca obbedienza alle leggi e sul timore della sanzione, bensì su una coscienza etica, sulla consapevolezza che i nostri comportamenti si ripercuotono inevitabilmente sulla libertà e sulla condizione dei nostri consimili.
Ciò detto, siamo così sicuri che la diffusione del Virus sia esclusivamente ascrivibile a responsabilità dello Stato e delle sue istituzioni? Domanda retorica e risposta negativa. Perché a fronte di alcuni innegabili errori del Governo precedente ( ad esempio l’aver consentito l’estate scorsa la riapertura di locali e discoteche) e di una colpevole devalorizzazione della medicina territoriale, a mio parere, lo sguardo si dovrebbe appuntare sul pianeta ” Cittadino”. In questo senso non si può sottacere che una minoranza di persone insista a sminuire il fenomeno pandemico, nelle parole come nelle condotte. Di qui una certa leggerezza ( e uso un eufemismo) nell’osservare le stra-ripetute precauzioni, da seguire specialmente negli ambienti chiusi e nei contesti familiari. Per fare un solo esempio parrebbe che durante le festività natalizie, alcuni connazionali abbiano cercato di aggirare il principio di buon senso che limitava il numero massimo dei partecipanti a occasioni conviviali. In proposito, abbiamo assistito persino ad alcuni comportamenti ” cialtroneschi”, con foto di tavolate fitte di commensali che irridevano, con tanto di dito medio alzato, alla prudenza raccomandata dai livelli più alti delle nostre istituzioni.
Una tragicomica conferma quest’ultima, della sindrome “egoica” che contribuisce ( insieme con altri fattori), al nostro impaludamento in questa soffocante situazione.
Tags:fabrizio uberto